Bruxelles ha deciso di allentare la stretta. Dopo mesi di tensioni, proteste e un crescente malcontento nelle campagne europee, Parlamento e Consiglio dell’Unione hanno trovato un’intesa per semplificare le regole della Politica agricola comune. Un accordo provvisorio, ancora in attesa del via libera definitivo, ma che segna già un punto di svolta. Il negoziato, guidato dalla presidenza danese del Consiglio e dal relatore socialista portoghese André Rodrigues, promette di ridurre gli oneri amministrativi e di alleggerire il peso normativo che, negli ultimi anni, ha trasformato molti agricoltori in esperti di scartoffie più che di coltivazioni.
Il nuovo pacchetto non riscrive la Pac, ma la piega alla realtà di un settore sotto pressione: rincari energetici, concorrenza internazionale, regole ambientali percepite come punitive. “Abbiamo dimostrato che è possibile rendere la Pac più equa, più chiara e più vicina a chi lavora la terra ogni giorno”, ha dichiarato Rodrigues, sottolineando come le nuove norme puntino a “incoraggiare le buone pratiche invece di punirle con la confusione e la burocrazia”.
Dal 1° gennaio 2026, più di nove milioni di agricoltori europei potranno beneficiare delle semplificazioni introdotte: meno controlli duplicati, più flessibilità per i terreni incolti, automatismi per le aziende biologiche. L’obiettivo è spostare l’asse della politica agricola dal vincolo alla fiducia, senza abbandonare del tutto gli obiettivi ambientali fissati dal Green Deal. Ma la mossa arriva in un momento politicamente delicato: la revisione del Quadro finanziario pluriennale e la crescente insofferenza del mondo rurale verso una transizione verde percepita come imposta dall’alto.
Dietro le formule tecniche della riforma — “principio una tantum”, “Bcaa”, “riconoscimento automatico del biologico” — si muove un tentativo di ricucire un rapporto logoro tra Bruxelles e chi lavora la terra. La semplificazione, voluta anche per accelerare l’attuazione del pacchetto “omnibus” sulla competitività, ha un valore politico preciso: placare un settore che, in molti Stati membri, è tornato a rappresentare un fronte di scontro elettorale e sociale.
L’Ue sceglie la via della semplificazione
Al centro dell’accordo c’è una concessione che, fino a pochi mesi fa, sembrava impensabile: i terreni considerati coltivabili al 1° gennaio 2026 manterranno lo status di “arabili” anche se non arati, coltivati o riseminati per diversi anni. Una decisione che punta a ridurre i costi e il lavoro richiesto agli agricoltori, ma che solleva interrogativi tra ambientalisti e tecnici sul rischio di un arretramento nelle tutele della biodiversità.
L’intento dichiarato è quello di evitare che, per conformarsi ai criteri di “buona condizione agronomica e ambientale” (Bcaa), gli agricoltori debbano ricorrere periodicamente a pratiche di aratura costose e dannose per il suolo. L’Unione, con questa mossa, riconosce di fatto che la rigidità dei vecchi vincoli ha prodotto effetti contrari alle finalità ambientali: terreni smossi solo per adempiere a un obbligo formale, ecosistemi disturbati da un eccesso di interventi.
L’accordo introduce anche un automatismo per gli agricoltori certificati biologici: per le parti delle loro aziende che sono già convertite o in fase di conversione, la conformità ai requisiti ambientali sarà data per acquisita. Un riconoscimento che premia chi ha investito nella sostenibilità, evitando doppi controlli e burocrazia superflua. Gli Stati membri potranno, tuttavia, limitare questa semplificazione qualora i controlli comportino “oneri amministrativi elevati”, formula che lascia ampio margine alle amministrazioni nazionali per interpretazioni diverse.
Il compromesso, se da un lato risponde alle pressioni del mondo agricolo, dall’altro sposta l’ago della bilancia verso una maggiore discrezionalità degli Stati e un minore presidio comunitario. Bruxelles sembra aver scelto una strategia di decentramento controllato: affidare ai governi nazionali la gestione della flessibilità, pur mantenendo gli obiettivi di lungo periodo. Ma resta aperta la domanda su come questa libertà sarà esercitata. Alcuni Paesi, come la Francia e la Polonia, spingono per un’applicazione ampia; altri, come i Paesi Bassi e la Svezia, temono che l’allentamento comprometta gli impegni climatici.
Dietro il linguaggio misurato delle istituzioni europee si intravede un mutamento politico: la priorità non è più solo la “transizione verde”, ma la sopravvivenza economica di un settore in difficoltà. In questo senso, la semplificazione agricola rappresenta un test cruciale per capire fino a che punto l’Unione sia disposta a sacrificare la coerenza ambientale sull’altare della stabilità sociale.
Sostegno diretto ai piccoli agricoltori
La trattativa tra Parlamento e Consiglio ha avuto un punto fermo sin dall’inizio: rafforzare la rete di protezione per le piccole aziende. I negoziatori hanno ottenuto l’aumento del pagamento annuo fino a 3.000 euro per i piccoli agricoltori (contro i 2.500 proposti dalla Commissione) e un nuovo contributo una tantum fino a 75.000 euro per lo sviluppo aziendale. Una correzione significativa, che punta a dare respiro a chi non dispone della scala economica necessaria per reggere l’urto dei mercati globali.
L’Europa agricola è sempre più polarizzata: da un lato grandi aziende competitive, digitalizzate e orientate all’export; dall’altro migliaia di imprese familiari che lottano per mantenere la redditività. L’aumento dei massimali, insieme alla riduzione dei controlli duplicati, mira a ridurre la distanza tra queste due realtà. La difesa del “principio una tantum” per le ispezioni ufficiali va nella stessa direzione: un solo controllo in loco all’anno, con l’obiettivo di evitare sovrapposizioni tra autorità e di restituire tempo e risorse a chi produce.
Insomma, meno tempo per la burocrazia e più tempo per il lavoro nei campi. Tuttavia, i rappresentanti del settore avvertono che la semplificazione amministrativa da sola non basta. In molti Stati membri, l’accesso ai fondi resta ostacolato da procedure lente e da una frammentazione normativa che rischia di annullare gli effetti del nuovo quadro europeo. “Le regole vanno alleggerite, ma servono anche risorse vere”, è il commento ricorrente nelle organizzazioni di categoria.
Per i piccoli produttori, soprattutto nel Sud Europa, la nuova Pac potrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno solo se accompagnata da un impegno concreto a livello nazionale. L’aumento dei tetti di sostegno è un segnale politico forte, ma la distribuzione effettiva dei fondi dipenderà dai Piani strategici che ogni governo dovrà rinegoziare con Bruxelles. La flessibilità, in questo contesto, è una lama a doppio taglio: garantisce autonomia, ma espone i Paesi a scelte divergenti e a potenziali squilibri interni al mercato unico.
