A Washington Volodymyr Zelensky doveva firmare un accordo che, almeno sulla carta, promette di garantire agli Stati Uniti l’accesso allo sfruttamento delle riserve minerarie ucraine. Ma più che una concessione mineraria vera e propria, l’intesa con Donald Trump sembra una mossa strategica: un accordo per stipulare un altro accordo. La struttura del patto resta vaga, si parla della creazione di un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina, alimentato al 50% dai ricavi futuri dell’estrazione mineraria ma senza dettagli su chi lo gestirà e quali aziende vi parteciperanno. Senza parlare del fatto che manca l’elemento che Kyiv avrebbe voluto inserire a ogni costo: garanzie di sicurezza esplicite da parte degli Stati Uniti.
“Non è spiegato in che modo verrà gestito questo fondo, né quali saranno le entità che opereranno in Ucraina”, sottolinea Alberto Prina Cerai, esperto di materie prime e Research Fellow presso l’Osservatorio Geoeconomia dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, in una conversazione con Eurofocus. “Si tratta solo di un’aggregazione di quelle che potrebbero essere gli introiti futuri delle attività minerarie estrattive”. Washington sembra voler plasmare il futuro del settore minerario ucraino a scapito della sovranità del Paese sulle proprie risorse, ma non mancano le incognite.
Cosa c’è davvero nelle viscere dell’Ucraina?
Trump ha più volte fatto riferimento a una cifra ricorrente – 500 miliardi di dollari – per indicare la ricchezza racchiusa nel terreno ucraino, spiegando che per gli Stati Uniti rappresenta anche un “pagamento” per il supporto militare contro l’invasione russa (elemento che nel testo dell’accordo non compare). Ma i numeri non quadrano, sottolinea l’esperto Ispi: la cifra è “completamente fuori scala rispetto a quelle che sono le riserve attualmente accertate sull’Ucraina”. Specie per quanto riguarda le “terre rare” che per il presidente Usa sono il cuore dell’accordo.
Di che si parla quando si parla di terre rare?
Un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, anche se sono quattro quelli che hanno un impiego commerciale-tecnologico importante: neodimio, praseodimio, disprosio e ittrio, spiega Prina Cerai, che sono divise anche a seconda delle loro proprietà chimico-fisiche in terre rare leggeri e pesanti. “L’attività estrattiva è diversificata rispetto a dieci anni fa, quando era concentrata quasi tutta in Cina: ora sono emersi nella filiera Stati Uniti e Australia, che però sono costretti ad affidarsi a tecnologie cinesi per la raffinazione, quindi gran parte dei loro prodotti vengono spediti in Cina”.
L’enfasi su queste terre rare si spiega anche perché buona parte dei loro impieghi riguarda il settore della difesa, rimarca l’esperto. Ma ci sono due problemi. Da una parte l’Ucraina non è un attore nel mercato globale delle terre rare e non compare nemmeno nei report del Servizio geologico degli Stati Uniti. Dall’altra l’intero mercato globale delle terre rare vale tra 14 e 15 miliardi di dollari all’anno, una frazione dell’importo che Trump attribuisce alle miniere ucraine.
Le riserve che esistono
“Altro discorso per i minerali come la grafite, il manganese o il titanio, di cui l’Ucraina ha riserve accertate e anche attività produttive, che erano molto attive prima della guerra”, spiega Prina Cerai. Nel 2021 Kyiv poteva già contare una base industriale mineraria importante che esportava manganese, grafite (principalmente verso l’Europa) e titanio (soprattutto verso gli Usa). Quest’ultimo è una delle risorse tra le più importanti a livello mondiale per le applicazioni in ambito tecnologico e aerospaziale, quindi il potenziale ucraino sotto questo profilo è decisamente alto.
Ma esiste un’altra serie di problemi. Anzitutto i dati sulle risorse sono obsoleti. La mappatura geologica dell’Ucraina risale all’epoca sovietica, con studi condotti negli anni ’70 e ’80 che non rispecchiano gli standard moderni, rimarca l’esperto. Inoltre, la mera presenza di un minerale non garantisce che sia economicamente sfruttabile. “Ad esempio, il manganese ucraino veniva impiegato principalmente per la produzione di acciaio e leghe. Ma il vero valore strategico di questo metallo è nella fabbricazione di batterie. Solo che per raggiungere il livello di purezza necessario servirebbero impianti di raffinazione e tecnologie di lavorazione che in Ucraina al momento non esistono”.
Nulla senza la sicurezza
In tutto questo tocca chiedersi come si farà a riavviare lo sfruttamento minerario in un Paese devastato dalla guerra e vulnerabile rispetto a una nuova aggressione in mancanza di garanzie da parte degli alleati. Bisogna capire come potranno procedere le attività estrattive e le operazioni economiche: inassenza di stabilità dal punto di vista securitario, gli investimenti potrebbero restare solo sulla carta, perché nessun operatore potrà mobilitare le risorse necessarie con un livello di rischio così alto.
Se l’Ucraina ha un potenziale minerario inespresso, serviranno anni di investimenti e stabilità politica per trasformarlo in una risorsa reale. E il destino dell’accordo potrebbe essere legato più alla durata della presidenza Trump che alle ricchezze nel sottosuolo. “Nei prossimi quattro anni vedo prospettive di sviluppo per le attività esistenti che hanno sospeso la produzione a causa della guerra, mentre sui depositi, considerando la carenza di dati, non penso che ci potranno essere grandi cambiamenti nell’attuale geografia di estrazione ucraina”, dice Prina Cerai.
Strategia o politica?
L’interesse americano per le risorse ucraine appare strumentale, almeno in parte. Da un lato potrebbe servire come giustificazione per continuare a fornire aiuto militare a Kyiv, così che Trump – sempre felice di potenziare la sua immagine di businessman – possa “vendere” alla base trumpiana, e al Paese, l’idea che lo scambio vada a vantaggio di Washington. Dall’altro, gli Usa potrebbero effettivamente aver bisogno di contrastare la dipendenza occidentale dai minerali cinesi. Ma la politica mineraria statunitense ha una logica più ampia, rimarca Prina Cerai.
“Ricordiamoci che è stato Trump e non Joe Biden ad attivare il Defense Production Act con cui, attraverso i fondi del Pentagono, la Casa Bianca ha incanalato finanziamenti pubblici verso il reshoring di alcune attività minerarie”, terre rare incluse. In altre parole, gli Usa stanno già investendo nel rafforzamento della loro industria estrattiva, e il loro interesse per le risorse ucraine va soppesato rispetto alla spinta bipartisan di riportare le catene di approvvigionamento più importanti entro i confini nazionali o nell’immediato vicinato – sia geografico che politico.
E l’Ue?
Al netto dei tentativi francesi di inserirsi nel dibattito, il canale diplomatico-politico tra istituzioni europee e ucraine in merito alle materie prime critiche dovrà essere rivisto in vista dell’accordo con gli Usa, spiega l’esperto. In seconda battuta, la presidenza Trump implica anche uno spostamento dell’attenzione verso petrolio e gas – coperti dall’accordo – e i minerali più utili per l’industria della difesa americana anziché i minerali critici per la transizione energetica, come cobalto, litio e grafite.
L’ironia è che in un’ottica di politica industriale l’Ucraina è un partner in linea con le esigenze dell’Ue, che sta intensificando gli sforzi per decarbonizzare l’industria. Il titanio rimane un materiale strategico sia per Bruxelles che per Washington, ma stando ai dati e alle certezze disponibili i materiali nel sottosuolo ucraino sono più complementari alla dimensione europea, sottolinea Prina Cerai.
“L’interesse degli Stati Uniti è molto recente, ma dobbiamo ricordarci che prima del conflitto è stata l’Ue ad approcciare per prima l’Ucraina nel contesto della sua politica di diversificazione delle forniture. Tant’è che il servizio geologico ucraino era stato inserito nel consorzio europeo delle materie prime (European Raw Material Alliance) con l’obiettivo di allineare studi e capacità lato Ucraina con gli standard internazionali di classificazione grazie all’aiuto di stakeholder europei”. Poi a fine 2021 – poche settimane prima dell’invasione – era stato avviato un dialogo strategico con l’idea di includere l’Ucraina all’interno del nuovo ecosistema europeo di alleanze con i Paesi ricchi di risorse avviato dalla Commissione europea.
Serve ricordarsi che aprire una nuova miniera e iniziare a sfruttarla richiede dai 10 ai 15 anni tra attività di esplorazione, studi di fattibilità, investimenti. Nulla che rientri nella finestra temporale dell’amministrazione targata Donald Trump. Dunque lo sguardo deve andare più in là, nel futuro in cui si potrebbero aprire nuovi margini di accordi tra Ucraina e Unione europea, considerando anche la promessa di adesione del Paese.