La ‘ghetto law’, la legge anti-ghetto approvata dalla Danimarca nel 2018, torna sotto i riflettori, e stavolta quelli della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Sarà infatti la Suprema corte a decidere una volta per tutte se la normativa danese in questione sia razzista o meno.
Tutto è partito sei anni fa, quando il governo danese di centrodestra introdusse – e in seguito quello di centrosinistra implementò – la cosiddetta legge ‘anti-ghetto’, che venne poi rinominata ‘Pacchetto Ghetto’ e infine ‘Legge sulle società parallele’.
La legge-ghetto doveva favorire una società più coesa
Le intenzioni almeno sulla carta erano propositive. La legge, infatti, secondo i suoi sostenitori, mirava – e mira – a ridurre la concentrazione delle comunità di immigrati, ad abbassare i tassi di disoccupazione e a migliorare gli standard educativi. L’obiettivo delle norme, come spiegò il governo, è quello di combattere le ‘società parallele’ che non si integrano nella cultura danese in modo da realizzare una società più coesa, evitando proprio quei ‘ghetti’ dove in definitiva si finisce segregati. La legge, inoltre, sempre secondo il governo, non sarebbe rivolta a gruppi etnici specifici.
Per arrivare a questo traguardo la normativa prevede di individuare delle aree su cui intervenire, definite ‘ghetto’, e procedere a rimodellare la loro composizione demografica attraverso la riduzione dei residenti non occidentali.
Categorizzare un quartiere come ‘ghetto’ infatti implica la possibilità di procedere a sfratti forzati, vendite di case, demolizioni e in generale alla riqualificazione urbana.
Cos’è un ghetto: le persone ‘non occidentali’
Ma quando si può parlare di ghetto secondo questa controversa normativa?
Il fattore determinante è se la maggioranza dei residenti è etichettata come di origine “non occidentale”. In pratica, ogni anno vengono identificate come ghetti le aree con più di 1.000 residenti di cui oltre il 50% “immigrati e loro discendenti da Paesi non occidentali” e che soddisfino almeno due dei quattro fattori socioeconomici correlati a occupazione, istruzione, tassi di criminalità e reddito.
Uno dei punti dibattuti è proprio il concetto di ‘non occidentale’, che non si basa sulla geografia. Possono rientrare in questa categoria infatti intere generazioni di persone, inclusi i discendenti nati in Danimarca o in Australia e Nuova Zelanda.
La ghetto law impone inoltre pene più severe per alcuni reati commessi nelle aree identificate come ‘ghetto’, e una maggiore conoscenza della lingua danese per i residenti.
Nel 2019, come anticipato, il governo ha cambiato terminologia, introducendo il concetto di ‘società parallele’ e ‘aree di trasformazione’ al posto di ‘ghetti’ e ‘ghetti difficili’. Un’operazione cosmetica, nel senso che per tutto il resto la normativa è rimasta invariata, e dunque soggetta alle stesse critiche di discriminare e stigmatizzare gli immigrati.
Il ricorso di alcuni residenti di Copenaghen
Su questa base 16 residenti di Mjølnerparken, un complesso residenziale pubblico nel quartiere Nørrebro di Copenaghen, che il governo ha categorizzato come ‘ghetto difficile’, hanno citato in giudizio il Ministero danese degli Interni e dell’Edilizia Abitativa per la messa in vendita delle loro case, decisa proprio ai sensi della legge sulle società parallele.
Nel dicembre 2021, l’Alta Corte orientale ha emesso una sentenza a favore dei residenti su questioni preliminari, e ha deferito la questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea, su richiesta degli stessi ricorrenti insieme all’Istituto danese per i diritti umani e a due esperti delle Nazioni Unite.
La CGUE ha accettato il caso e ora dovrà determinare se la ‘legge sulle società parallele’ violi le norme Ue anti-discriminazione razziale dell’Unione, soprattutto in relazione al criterio del background ‘non occidentale'”‘.
Va poi considerato anche un altro aspetto: sulla testa di queste persone pende costantemente il rischio di sfratto o perdita della casa, ma più in generale la legge sulle società parallele favorisce anche l’equazione “non occidentale (ovvero sostanzialmente immigrati di prima o seconda generazione, di colore o di religione musulmana) = disoccupato, criminale, scarsamente istruito e non integrato”.
Una pronuncia che farà da precedente
La decisione della Corte potrà costituire, in un senso o nell’altro, un importante precedente per tutta l’Unione su come gli Stati possano legiferare su questioni di integrazione e politica sociale senza violare i diritti di specifici gruppi etnici.
Tanto per fare un esempio di come queste politiche – in teoria miranti ad evitare la creazione di ‘bolle urbane’ su base etnica e/o di reddito – possano sconfinare facilmente in discriminazione, basti pensare che nel 2020, in Germania, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland aveva chiesto alle autorità della Renania Settentrionale-Vestfalia di pubblicare una lista di 44 zone ‘ad alto rischio’, in pratica tutte zone con un’alta densità di immigrati.
Tra l’altro, il concetto secondo cui si definiscono e categorizzano le aree dove intervenire si potrebbe allargare velocemente, come ha già dimostrato nel 2022 il ministro dell’Immigrazione svedese Anders Ygeman, che sul tema ha fatto riferimento ad aree popolate da residenti privi di ‘origini nordiche’.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea perciò dovrà decidere su un tema che va oltre i confini danesi: la sentenza potrebbe definire nuovi standard per l’equilibrio tra politiche di integrazione e rispetto dei diritti fondamentali, in tutta l’Unione Europea.