Déjà vu in quel di Bruxelles: a poche settimane dal suo insediamento, la seconda Commissione guidata da Ursula von der Leyen dà ufficialmente il via al suo secondo maxi-programma per riconfigurare l’economia dell’Unione europea. La differenza tra i due riflette sia il cambiamento politico interno all’Ue, sia i profondi cambiamenti dello scenario internazionale. Con il Green Deal del 2019 l’Ue si proponeva di avviare il percorso verso un’economia a zero emissioni nette nel 2050, puntando su concetti come crescita sostenibile e transizione equa. Oggi, invece, c’è il Clean Industrial Deal, o Cid in breve, e il perno – come indicato dal Rapporto Draghi – è la competitività.
L’obiettivo dichiarato è quello di presentare a Parlamento e Consiglio una serie di pacchetti legislativi per mettere l’economia del Vecchio continente in grado di competere con le altre superpotenze economiche, Stati Uniti e Cina. E la strada per il successo passa sempre dalla decarbonizzazione, spiegano dalla Commissione: gli obiettivi climatici rimangono gli stessi, anche perché la dipendenza dagli idrocarburi provenienti dall’estero (vedi alla voce Russia) è una delle debolezze cruciali dell’Europa. Però cambia radicalmente il modo di agire: meno regole e burocrazia, più investimenti, perché il centro di gravità dell’economia dell’Ue sono le sue aziende ed è necessario tornare ai fondamentali economici prima di immaginarsi un futuro net zero.
La reazione degli esperti
Il sentiment generale degli addetti ai lavori in aera cleantech, sondata da Eurofocus in un ciclo di conferenze a Bruxelles, fluttua tra un cauto apprezzamento per l’impostazione generale (soprattutto il richiamo alla decarbonizzazione industriale e alle sinergie tra vari strumenti) e uno scetticismo, più o meno marcato, su alcuni dettagli operativi. Non mancano gli analisti del settore chericonoscono il potenziale del Cid nei campi della competitività europea, della spinta industriale verso settori net zero, dell’abbattimento dei costi energetici e dell’uso di fondi per la decarbonizzazione.
Tuttavia, dagli interventi emergono riserve sulla mancanza di certezze normative (specie per i target climatici al 2040, che secondo alcuni avrebbero dovuto accompagnare la presentazione del pieno), l’apparente indebolimento delle regole di sostenibilità per via delle semplificazioni, e la scelta di investire in infrastrutture legate al gas – che pur essendo il meno climalterante tra gli idrocarburi rimane, appunto, un combustibile fossile. Ma vediamo i commenti punto per punto.
Clean Industrial Deal e competitività net zero
Per rilanciare il settore industriale cleantech la Commissione intende rafforzare la produzione europea di tecnologie pulite, mobilitando fino a 100 miliardi di euro nelle filiere di riferimento. In parallelo si vuole introdurre una preferenza per le tecnologie “made in Europe” (sulla falsariga dell’Inflation Reduction Act dell’amministrazione Biden) e ampliare i criteri di appalto pubblico a favore di prodotti a basse emissioni di carbonio. “A differenza degli Stati Uniti, questa strategia non torna a puntare su petrolio, gas e carbone, ma si basa sulla decarbonizzazione”, perché l’intento “è fare dell’Ue una destinazione attraente per l’innovazione e la produzione net zero”, rileva Neil Makaroff, direttore di Strategic Perspectives. “In questo senso, il Cid è un cambio di paradigma necessario per aiutare l’Europa ad affrontare le turbolenze geopolitiche e invertire il declino economico”.
“Era ora”…
D’accordo il collega Tristan Beucler, secondo cui l’Ue finalmente “riconosce l’urgenza di riportare competitività all’industria per restare in corsa con Cina e Stati Uniti. Questo sostegno giunge in un momento cruciale, dato che l’industria europea affronta grandi sfide: forte concorrenza esterna, rallentamento della domanda e dipendenza da catene di valore internazionali per le tecnologie net zero. Vincolare misure e appalti a resilienza, sostenibilità e preferenza europea può incrementare la domanda di quei pionieri che necessitano di investimenti di lungo periodo per la trasformazione industriale dell’Ue.”
… “e ora?”
Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think tank, accoglie con favore la notizia dei 100 miliardi per la decarbonizzazione industriale, ma “a patto che quel denaro vada verso l’obiettivo climatico al 2040” (quello da aggiornare: meno 90% emissioni rispetto al 1990) e alle aziende più esposte alla concorrenza cinese, o ai dazi americani. In più, sottolinea, investire in infrastrutture per l’importazione di gas naturale liquefatto estero “alimenta le dipendenze dell’Ue senza una garanzia di abbassare i prezzi dell’energia. Anzi, è una follia economica finanziare Paesi come Usa e Qatar in un momento in cui cittadini e imprese europee faticano”.
Sul piano dell’organizzazione, Elisa Giannelli di E3G critica l’assenza di una tabella di marcia chiara per il 2040. “La Commissione europea invia segnali politici confusi e incompleti sul proprio programma futuro”, lamenta, sottolineando che senza una proposta legislativa o una tempistica definita per la conferma dell’obiettivo climatico Ue al 2040, i provvedimenti adottati dalla Commissione sono più deboli. Il suo collega Domien Vangenechten sottolinea la necessità di una visione più coordinata: il piano interviene su energia, mercato, circolarità e finanziamenti, ricorda, ma “una politica industriale di successo richiede anche un utilizzo strategico di tali elementi: scelte chiare su dove dare priorità, processi decisionali trasparenti e un migliore coordinamento delle politiche nazionali”. Tutti elementi che secondo lui mancano nella strategia dell’esecutivo Ue.
Piano d’azione per l’energia a prezzi accessibili
L’Action Plan for Affordable Energy punta a ridurre i prezzi energetici a breve e lungo termine, promuovendo l’espansione delle rinnovabili, semplificando i permessi e incentivando contratti di fornitura a lungo termine. Secondo le stime della Commissione sono possibili risparmi per 45 miliardi di euro già nel 2025, salendo a 130 miliardi entro il 2030 e a 260 miliardi nel 2040. Sono previste inoltre misure di efficienza e incentivi per i consumatori che riducono i consumi nelle fasce orarie di picco della domanda, cosa che “ammorbidisce” le fiammate di prezzo.
La strada è giusta, ma…
Chris Rosslowe, analista senior di Ember, elogia la strategia complessiva: per lui il Piano d’azione “diagnostica correttamente la causa principale dell’alto prezzo dell’energia in Europa: la dipendenza dai combustibili fossili importati. Le misure proposte trovano un buon equilibrio tra il sollievo a breve termine per i consumatori e la soluzione strutturale della dipendenza dal fossile. È positivo vedere azioni concrete che accelereranno le rinnovabili a basso costo e, allo stesso tempo, sfrutteranno l’aumento di energia pulita per favorire l’elettrificazione”. A parte i dubbi sul sostegno agli investimenti nel gas, il percorso di abbassamento dei prezzi è “plausibile”, commenta – se gli Stati membri si impegnano seriamente nell’attuazione.
… c’è troppa poca elettrificazione
Altri riscontrano poca ambizione sul fronte dell’efficientamento e dell’elettrificazione. “L’energia più economica è quella che non si consuma, eppure manca un serio impegno per l’efficienza energetica”, rileva Cornelia Maarfield di Can Europe, sottolineando che le azioni previste nel settore sono state rinviate di un anno intero. “Un’uscita rapida e decisa dal gas fossile è l’unico modo per ridurre i prezzi, sia per le imprese sia per le famiglie in difficoltà”, aggiunge. E le fa eco Ana Maria Jaller-Makarewicz di Iee, che invita alla prudenza sugli investimenti in infrastrutture gnl, evidenziando che questi rischiano di intensificare la dipendenza dell’Ue e non abbassano necessariamente i prezzi a livello domestico.
E l’idrogeno?
Non sono le uniche a pensare che l’Ue stia lasciando indietro dei pezzi. Bernd Weber, Ceo di Epico Klimainnovation, apprezza la riduzione dei costi di sistema e la stabilità dei prezzi: “puntare sui mercati guida, sfruttare gli appalti pubblici e prevedere incentivi fiscali è una politica industriale più efficace che affidarsi ai sussidi”. Ma la vera mancanza “è un approccio pragmatico per far ripartire la filiera dell’idrogeno”, avverte, visto che “gli investimenti rallentano, i progetti subiscono ritardi per costi eccessivi e l’incertezza domina l’intera catena del valore.”
Omnibus: semplificazione o deregulation?
Il primo pacchetto Omnibus modifica diverse leggi chiave del Green Deal. Sotto l’accetta finiscono sigle imponenti come Csrd (Corporate Sustainability Reporting Directive, che obbliga le imprese a fornire in modo standardizzato dati sull’impatto ambientale, sociale e di governance, rendendo più trasparente la loro performance in materia di sostenibilità); Csddd (Corporate Sustainability Due Diligence Directive, che impone alle aziende di individuare, prevenire e mitigare gli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente lungo l’intera catena di fornitura); e la tassonomia (il sistema di classificazione che definisce quali attività economiche possono essere considerate “sostenibili”, fornendo criteri per orientare investitori e imprese).
Tra i cambiamenti principali, l’innalzamento delle soglie per la rendicontazione di sostenibilità e la revisione di alcuni criteri per alleggerire gli oneri burocratici. Ma i critici, specie quelli con lo spirito più verde, accusano la Commissione di una marcia indietro pericolosa. È il caso Jurei Yada, direttrice del programma Eu Sustainable Finance presso E3G, che critica l’alleggerimento degli obblighi di trasparenza.
Incertezza e investimenti
“La Commissione ha scelto di portare deregolamentazione, disordine e incertezza con le sue proposte di semplificare le regole fondamentali per la finanza sostenibile. Le loro dichiarazioni non sono convincenti nel dimostrare che tali misure – che escludono dalla rendicontazione e dalle due diligence obbligatorie quasi tutte le aziende, tranne le più grandi – siano in linea con l’obiettivo di aiutare imprese e investitori a realizzare una transizione sostenibile. Parole vuote sul mantenere la rotta non creano la fiducia di cui l’Europa ha bisogno per essere competitiva; anzi, l’Ue dimostra di essere imprevedibile e inaffidabile riguardo alle proprie normative”.
Secondo Amandine Van den Berghe, avvocato senior di ClientEarth, l’esecutivo Ue “ha deciso di smantellare tre pilastri chiave del Green Deal che impongono alle imprese di agire responsabilmente lungo la catena di approvvigionamento: una mossa avventata che non solo potrebbe ostacolare gli obiettivi ambientali dell’Ue, ma anche la competitività del mercato comunitario”. È un momento in cui l’azione climatica delle aziende “ha bisogno di maggiore responsabilità, non di meno”, dunque “indebolire i requisiti di piano di transizione è un problema serio”, argomenta. Il punto è che questa nuova formulazione “invia segnali contraddittori alle imprese, creando incertezza su quanto debbano effettivamente rispettare i propri piani”.
L’onere solo ai big
Tsvetelina Kuzmanova, Sustainable Finance Lead di Corporate Leaders Groups Europe (Università di Cambridge) mette in luce i rischi per chi investe di più nella transizione. “Questo è un chiaro segnale che l’Ue si piega alle pressioni politiche interne ed esterne” e “mette a rischio l’integrità del quadro Esg che aveva costruito con tanta fatica”, commenta. Secondo lei i tagli proposti non solo riducono l’ambizione ma “premiano attivamente chi rimane indietro, penalizzando le aziende responsabili”, perché mentre le grandi aziende che guidano la transizione “dovranno districarsi in ostacoli burocratici solo per accedere ai finanziamenti green, chi ignora la sostenibilità non subisce conseguenze”.
Il capitolo Cbam
Nel pacchetto Omnibus rientra anche la semplificazione degli obblighi amministrativi connessi al Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism, il sistema di tassazione delle emissioni alla frontiera Ue). È stata introdotta una soglia annua di 50 tonnellate che esenterebbe gli importatori di piccole dimensioni di ferro, acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, pur coprendo la maggior parte delle emissioni. Ma l’obbligo di acquisto dei certificati Cbam entrerà in vigore come previsto a febbraio 2027, in linea con l’espansione del sistema dell’Ets, senza alcuna sospensione nel 2026 come si vociferava.
Per Oldag Caspar, responsabile per la politica climatica tedesca ed europea presso Germanwatch, la proposta è “ben congegnata”ma sta alla Commissione “essere molto vigile affinché le aziende non inizino a sfruttare parametri meno severi”. Non appena l’Ue darà al mondo il segnale di prendere meno sul serio il meccanismo danneggerà l’ambizione di ridurre le emissioni nei Paesi partner commerciali, dove il sistema europeo sta già influenzado l’operato delle aziende in maniera rilevante, commenta. Anche Andrew Reid, analista di finanza energetica presso Ieefa Europe, ritiene logico focalizzarsi sugli operatori più inquinanti, avvertendo però che un atteggiamento di eccessiva tolleranza potrebbe indebolire l’efficacia dello strumento. E Greg Van Elsen di Can Europe sottolinea l’importanza di imporre condizioni rigorose per evitare l’abuso di fondi pubblici.