Mario Draghi torna a bacchettare l’Ue da Parigi, questa volta con un Trump in più all’orizzonte. Dopo il Rapporto sulla Competitività presentato lo scorso settembre alla Commissione europea, l’ex premier e presidente Bce ha ‘aggiornato’ le sue raccomandazioni, anche alla luce delle tensioni tra Bruxelles e Pechino, in occasione del Simposio Annuale del Centre for Economic Policy Research, il più importante network di ricerca di economisti d’Europa.
Il rischio, più volte richiamato su queste pagine, è che l’Unione europea si trovi con i ponti tagliati sia ad Est che ad Ovest: “da qualche tempo il mercato cinese è diventato meno favorevole per i produttori europei”, e “la nuova amministrazione Trump sembra riluttante ad agire come nostro acquirente di ultima istanza”, ha avvertito Draghi.
Draghi, Ue e il gap con gli Usa
Tante le scelte sbagliate da parte dei Ventisette secondo l’ex premier italiano: “Con gli investimenti in stallo e la politica fiscale che diventava restrittiva, la domanda interna come percentuale del Pil nell’area euro è scesa al livello più basso delle economie avanzate. E il divario relativo con gli Stati Uniti si è ampliato”. Il commento di Draghi sul gap co gli Usa è laconico: “È difficile sostenere che questo risultato sia stato del tutto accidentale”.
Il divario rischia di pesare particolarmente, ora che l’Ue si trova in una situazione di dipendenza commerciale dall’America mentre il protezionista Trump diventa presidente degli Usa per la seconda volta. “La nuova amministrazione statunitense sembra riluttante ad agire come nostro acquirente di ultima istanza. Dovremo confrontarci con una strategia statunitense deliberata per riequilibrare la domanda globale e sopprimere i surplus commerciali nei suoi principali partner commerciali”.
Già all’indomani della vittoria del tycoon, Mario Draghi spiegava: “Non c’è alcun dubbio che la presidenza Trump farà grande differenza nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa. Non necessariamente tutta in senso negativo, ma certamente noi dovremmo prenderne atto. Dal punto di vista del rilancio della competitività in Europa, un paio di cose vengono in mente”. Anzitutto, prevede, “questa Amministrazione sicuramente darà grande impulso al settore tecnologico, al cosiddetto hi-tech, dove noi siamo già molto indietro”.
“Indietro” è l’avverbio che meglio descrive la situazione dell’Unione europea: “i governi hanno fatto ben pochi sforzi per completare il mercato interno dell’Ue e l’applicazione delle sue regole è diventata più debole, mentre l’integrazione dei mercati finanziari è progredita ben poco. Tutti questi fattori sono stati un ostacolo alla crescita della produttività. Inoltre, – aggiunge Draghi – le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita salariale come mezzo per aumentare la competitività esterna, aggravando il ciclo debole di reddito e consumo. C’era spazio fiscale per tutti i governi per contrastare la debole domanda interna. Ma almeno fino alla pandemia, in Europa hanno fatto una scelta politica deliberata di non utilizzare questo spazio”.
La strategia “basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi non sembra più sostenibile”, chiosa Draghi.
Cosa deve fare l’Ue
Per l’economista, i Ventisette devono insistere su due pilastri per rilanciare l’economia europea: le riforme strutturali e quelle macroeconomiche. Le prime “sono necessarie affinché le politiche macroeconomiche abbiano pieno effetto. E le politiche macroeconomiche pienamente efficaci sono necessarie affinché le riforme di mercato generino il massimo della crescita della produttività”, spiega l’ex presidente della Bce.
Se per anni le riforme strutturali sono state sinonimo di flessibilità lavorativa e contrazione dei salari, “oggi significa aumentare la crescita della produttività senza disperdere il lavoro, ma piuttosto riqualificando le persone”, spiega ancora Draghi.
L’ex presidente del Consiglio indica la via per il rilancio dell’economia europea tra le tante tattiche proposte nel Rapporto: “il mercato unico europeo e il mercato dei capitali sono fondamentali poiché sostengono i meccanismi di base che guidano la crescita della produttività. Se queste riforme nella struttura dei mercati venissero attuate, si farebbe già un grande passo verso questo cambiamento”, spiega Draghi che insiste sulla linea di una maggiore coesione europea.
A pochi giorni dall’ok definitivo all’ingresso di Romania e Bulgaria nell’area Schengen, l’economista spiega che abbattendo le barriere commerciali e regolatorie interne all’Ue: “la produttività aumenterebbe, l’efficacia delle politiche a sostegno della domanda crescerebbe e ciò si tradurrebbe in una crescita della produttività ancora più forte. Sappiamo però che ci vorrà tempo prima che tali riforme diano frutti. Quindi dovremmo anche riflettere su come le politiche macroeconomiche possano essere utilizzate in modo più efficiente nel frattempo”.
Ecco cosa potrebbe fare l’Ue per evitare il collasso definitivo della propria economia, nelle more che le riforme strutturali diano il loro effetto.
Ipotesi debito comune
La soluzione si chiama debito comune, una soluzione che torna a prendere piede tra i leader europei e forse non è mai stata necessaria come ora. Già il mese scorso, i ministri degli esteri di cinque Paesi europei, riuniti a Varsavia, hanno raggiunto uno storico accordo sull’emissione di obbligazioni europee per finanziare la Difesa comune. In quella occasione il ministro degli esteri polacco Radoslaw Sikorski ha definito storico l’accordo raggiunto da Polonia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito: “Per la prima volta cinque Paesi si sono pronunciati a favore di obbligazioni europee per finanziare la Difesa, è una vera novità”.
L’accordo trovato dai ministri segue la linea Draghi, che chiede all’Ue di emettere un nuovo debito comune per finanziare le sue esigenze industriali e di difesa basandosi sul modello del NextGenerationEu. L’Unione dovrebbe prevedere forme di “finanziamento congiunto” per i “beni collettivi europei fondamentali”, magari emettendo “safe asset” europei (titoli obbligazionari a basso rischio), ha spiegato nel suo Rapporto, a settembre.
In occasione del Simposio Annuale del Centre for Economic Policy Research, Draghi ha aggiunto che il debito comune sarebbe utile a temporeggiare, prima che le riforme strutturali diano i loro effetti: “Se l’Unione Europea dovesse emettere debito comune potrebbe creare ulteriore spazio fiscale da utilizzare per limitare i periodi di crescita al di sotto del potenziale. Ma non possiamo intraprendere questa strada a meno che i cambiamenti nella struttura dei mercati non siano già in movimento per sollevare i tassi di crescita potenziale nel medio termine”, spiega Draghi.
“La Banca centrale europea – aggiunge – stima che, se tutti i Paesi dovessero sfruttare appieno il periodo di aggiustamento di sette anni, sarebbero disponibili ulteriori 700 miliardi di euro per investimenti. Una quota significativa delle necessità di investimento pubblico richieste”.
Le prospettive future
Al ritardo economico dell’Ue, si aggiunge quello demografico: “Sarebbe confortante – spiega Draghi – credere che questi problemi non siano così consequenziali come sembrano e che, essendo un continente ricco, l’Europa possa entrare in una fase di declino gestito e confortevole. Ma in realtà non c’è nulla di confortevole in questa prospettiva: se l’Ue continua con il suo tasso medio di crescita della produttività del lavoro dal 2015, date le nostre società in invecchiamento, l’economia tra 25 anni sarà delle stesse dimensioni di oggi”. È proprio è qui che si presenta il vero nodo: gli impegni di spesa che i governi devono affrontare non sono proporzionali al Pil. Le passività pensionistiche non finanziate in Europa sono stimate tra il 150% e il 500% del Pil; questo significa che i fondi accantonati per pagare le pensioni in futuro sono drammaticamente insufficienti rispetto agli impegni presi, con implicazioni preoccupanti per la stabilità economica e sociale.
L’analisi si fa ancora più stringente quando Draghi elenca gli investimenti indispensabili per preservare l’autonomia e il benessere europeo: tra i 750 e gli 800 miliardi di euro all’anno (quello che lui stesso ha definito ‘una sorta di Piano Marshall per l’Europa’) saranno necessari per affrontare priorità quali energia, digitalizzazione, difesa, ricerca e sviluppo, senza dimenticare la sfida rappresentata dall’adattamento climatico e dalla protezione ambientale. Questi settori definiranno il futuro dell’Europa, influenzando la sostenibilità e la sicurezza del continente.
Un aspetto centrale del discorso di Draghi è che l’Europa non può semplicemente “accontentarsi” della società che conosciamo oggi: “Vogliamo tutti quella società che l’Europa ci ha promesso, quella in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi. Ma non abbiamo alcun diritto immutabile affinché la nostra società rimanga sempre come desideriamo. Dovremo combattere per mantenerla”, ha concluso Mario Draghi.