L’industria automotive europea è “vittima di politiche fortemente dirigistiche che hanno creato, nei fatti, instabilità”. Per il professor Marco Cantamessa (Dipartimento di Ingegneria gestionale e della produzione del Politecnico di Torino), lo storico annuncio della chiusura di tre fabbriche Volkswagen in Germania era – purtroppo – facile da aspettarsi. “Misure più progressive e graduali avrebbero potuto imprimere una direzione [all’industria] senza creare questi scossoni”, spiega a Eurofocus. Ora ci si prepari alle ripercussioni sull’economia italiana, dove il forte settore di componentistica e sistemistica è molto esposto verso clienti tedeschi.
Transizione a tappe forzate
Il problema nasce con la decisione europea di indirizzare l’industria verso la transizione verde adottando un divieto di vendita per nuovi motori endotermici dal 2035. È prevista una revisione al 2026, che il ministro delle Imprese Adolfo Urso vorrebbe anticipare. A ogni modo, questa linea politica “start and stop” si è tradotta in uno sbilanciamento, spiega il professore: da una parte i produttori costretti pochi mesi fa ad andare all-in sull’elettrico con investimenti stellari, dall’altra la confusione dei clienti sul valore delle vetture, presenti e future.
In questo contesto è naturale che una crisi della domanda come quella odierna causi una “situazione di insostenibilità economica”, rileva Cantamessa. Secondo lui l’impatto degli alti tassi di interesse è marginale: nel già fragile contesto di cambiamento tecnologico l’instabilità è stata esacerbata da scelte politiche troppo rigide e dagli incentivi, che distorcono il mercato facendo impennare la domanda nel periodo di applicazione e causandone il crollo quando vengono rimossi.
È in questo contesto che si colloca il definanziamento del Fondo per l’automotiva da 4,55 miliardi (l’80% del complessivo) previsto in manovra, che sta scatenando polemiche tra gli addetti ai lavori. Per il professore vanno ancora chiariti i perimetri di questa scelta. “Posso solo dire che, a fronte di un cambiamento così dirompente come il cambio della natura dell’auto e della riconversione industriale, è preoccupante che il tema dirimente siano stanziamenti pubblici sì importanti, ma di entità “relativamente bassa” rispetto all’investimento necessario per affrontare questi cambiamenti.
L’attenzione va spostata sul settore privato, che al momento si trova troppo “agganciato” al decisore pubblico – che si è messo al traino di regole “ballerine”, e si è fatto dipendente dall’erogazione di sussidi. Per Cantamessa è bene mettere in discussione questo modello, non per motivi ideologici, ma pragmatici, perché in una transizione industriale complessa come quella in corso “solo la sperimentazione diffusa nel mercato e nelle filiere può consentire di far emergere, progressivamente, le scelte che sono tecnologicamente e industrialmente vincenti”.
Il futuro dell’industria
Dati alla mano, il mercato sembra indicare una direzione: mentre calano le vendite di auto in tutta l’Ue (meno 6,1% a settembre 2024) quelle delle elettriche “pure” a batteria sono cresciute del 9,8% rispetto ad agosto. “Che il futuro sia elettrico è evidente, non ci piove”, sottolinea il professore. Il tema è a livello di dettaglio tecnico: quali composizioni chimiche delle batterie, quali nuove segmentazioni per le autovetture, e quali modalità di ricarica. Tutte questioni su cui nessuno ha ancora dimostrato grande chiarezza, ed è “proprio per questo che serve la sperimentazione”.
Cantamessa ricorda il processo innescato dalla decisione sul motore endotermico, con l’Ue che spinse per riaprire le miniere di cobalto, materiale allora necessario per le batterie – almeno finché, dopo pochi mesi, gli sviluppi tecnologici non hanno suggerito composizioni che potrebbero non richiedere questo elemento. Allo stesso modo non è ancora chiaro se i clienti preferiranno ricaricare le auto nel garage di casa, con colonnine a ricarica rapidissima, o con altre modalità ancora – soluzioni che però richiedono di rinnovare la rete elettrica in modi completamente diversi. “Questa fluidità va rispettata e gestita”, conclude il professore.
Sta diventando una parabola il caso di Northvolt, produttore di batterie svedese che secondo Bloomberg sta negoziando un pacchetto di salvataggio da 300 milioni. L’azienda prevede di tagliare posti di lavoro e bloccare la produzione in alcuni siti, mentre le perdite si accumulano e una parte di ordini viene disattesa. Non è chiaro se alcuni azionisti di Northvolt, tra cui Goldman Sachs, Volvo e ABB, inietteranno altro capitale: una storia che nel suo complesso racconta di “quanto sia terribilmente difficile produrre batterie”, evidenzia Cantamessa.
Il capitolo cinese
Per competere nel settore delle batterie “non bastano i soldi ma serve la conoscenza del processo produttivo”, campo in cui le aziende cinesi sono all’avanguardia. In più, ragiona il professore, non si sa se la produzione di batterie un domani sarà particolarmente remunerativa, o se diventerà un mercato di commodity a bassa marginalità. Certo, ci sono gli aspetti geopolitici e di sicurezza degli approvvigionamenti, che sono “critici”. Ma, a livello puramente economico, limitarsi a importare batterie dalla Cina potrebbe rivelarsi una buona scelta.
È Pechino il convitato di pietra a ogni tavolo in cui si discute di auto elettriche. Il governo cinese ha criticato duramente la decisione dell’Ue di imporre dazi aggiuntivi fino al 35% sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi per bilanciare i sussidi statali e proteggere l’integrità del mercato europeo da distorsioni. Nel mentre, però, stanno saltando anche diverse joint venture tra produttori europei e cinesi (il matrimonio Stellantis-Leapmotor è in controtendenza). Una situazione “estremamente complessa e difficile da dirimere per i manager”, e legata al processo di apparente deglobalizzazione, rimarca il professore.
Cosa sarà un’automobile?
Lo sguardo deve necessariamente andare al futuro. Cantamessa è convinto che si vedranno dei “grossi cambiamenti” nell’architettura del prodotto auto, oggi basato su un concetto che è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 120 anni. Prevede, per esempio, “grandi differenze e segmentazioni” tra le auto del futuro a uso urbano e quelle adatte per le lunghe distanze. “Questo spiega perché focalizzarsi sulle joint venture tra costruttori incumbent, forse, lascia un po’ il tempo che trova”.
Nell’auto elettrica è evidente la possibilità di disaccoppiare la parte propulsiva dall’abitacolo. Cosa che lascia presagire lo sviluppo di filiere meno integrate di oggi, per la produzione di telaio e motore (la “base”) e la parte superiore (la parte “personalizzabile”). “Non sarei stupito se si dimostrassero vincenti piattaforme come la MIH, proposta dalla Foxconn (il più grande fornitore di Apple, ndr), che potrebbero permettere l’aggiunta di abitacoli prodotti da aziende di design di alta gamma, o da una Ikea per i modelli più economici. Un ritorno non impossibile all’era dei produttori e dei carrozzieri di cent’anni fa”.