I perché dell’euro digitale, punto per punto. La guida di Bankitalia

Il Parlamento europeo si interroga sull'effettiva utilità del progetto, la Bce ne ribadisce gli aspetti strategici in un mercato segnato dal declino del contante e dal dominio di circuiti extra-Ue. Dalla sfida sovranità ai costi, fino alle garanzie di privacy, passando per i privati, la mappa di Alfonso Francia, advisor dell’Unità euro digitale di Bankitalia
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Euro digitale Banca d'Italia
Paris Bilal/Unsplash

“Ci serve davvero l’euro digitale? È una soluzione per quale problema, esattamente?”. Questo il titolo di un articolo pubblicato dall’europarlamentare spagnolo Fernando Navarrete (Ppe), relatore del dossier al Parlamento europeo, che cattura molti dei dubbi e delle preoccupazioni associate al progetto presentato dalla Banca centrale europea, per cui invece la costruzione dell’euro digitale, nelle parole del membro del Comitato esecutivo Piero Cipollone, “è una necessità strategica”. Dopo anni di discussione la Bce ha completato la fase di preparazione ed è pronta per passare all’implementazione, ma la palla è nel campo delle istituzioni europee, con il Parlamento che parte dalla relazione del Ppe e il Consiglio che ha promesso di prendere posizione entro fine 2025.

La risposta a un problema emergente

Parlando in audizione all’Eurocamera, Cipollone ha sottolineato che secondo un sondaggio condotto dall’Eurosistema due terzi dei cittadini europei sarebbe interessato a provare l’euro digitale. In Olanda, due su tre lo utilizzerebbero se fosse disponibile, in Germania circa la metà degli intervistati lo considera un’opzione utile dopo aver capito come funzionerebbe. La consapevolezza cresce anche in Italia, spiega a Eurofocus Alfonso Francia, advisor dell’Unità euro digitale di Bankitalia, sottolineando che oltre la metà dei rispondenti affermano di sapere in cosa consisterebbe.

“È anche vero che molti cittadini non lo chiedono ancora esplicitamente. Ma non tutti i bisogni emergono sotto forma di domanda spontanea”, rileva Francia, ricordando che la domanda di bonifici immediati era marginale quando fu progettata la piattaforma europea per i pagamenti istantanei (Tips) e non c’era alcun tipo di pressione “dal basso”. Ma i tecnici della Bce ci avevano visto lungo: “quando la domanda è esplosa, l’Europa aveva già un sistema pronto, efficiente e operativo”, che oggi rende possibile milioni di pagamenti istantanei. Lo stesso vale per l’euro digitale: “si tratta di dotare l’Europa di uno strumento che serva anche in ottica futura”.

C’è di più: il problema da risolvere si sta già delineando. La società di consulenza McKinsey rileva il rapido declino del contante, oggi utilizzato per il 46% delle transazioni a livello globale (era il 50% nel 2023). Di converso cresce l’uso di pagamenti digitali diretti, sia tra utenti che tra aziende, e spesso si appoggiano a circuiti internazionali come Visa e Mastercard. Nel mentre prendono piede soluzioni innovative come le stablecoin (dal 2024 al 2025 ne è raddoppiata l’emissione), che sono perlopiù legate al dollaro statunitense.

In questo scenario sempre più virtuale e caotico diventerà “sempre più importante poter contare su un’opzione pubblica, garantita dalla banca centrale, e non solo soluzioni private o straniere”, sottolinea Francia. “Significa avere un’alternativa europea nei pagamenti online, nei trasferimenti tra persone, nei piccoli pagamenti quotidiani, nelle situazioni di emergenza o di scarsa connettività. Significa poter continuare a usare una forma di ‘contante digitale’ anche quando la tecnologia cambia. È un modo per rafforzare la nostra autonomia e per sostenere la competitività europea, evitando che pochi grandi attori privati – magari non europei – diventino gli unici gatekeeper dei pagamenti”.

Creare il contante digitale: costi e benefici

L’idea alla base dell’euro digitale è traslare nella sfera virtuale i benefici del contante e offrirlo ai cittadini come opzione: questi potranno scegliere se utilizzarlo oppure no, proprio come avviene con altri mezzi di pagamento, sottolinea l’addetto di Bankitalia. La proposta della Bce è quella di introdurre simultaneamente l’euro digitale sia online che offline, garantendo che sia “accessibile in tutti i contesti della vita quotidiana, tanto nei pagamenti di prossimità quanto in quelli digitali a distanza”. Limitarlo alla sola versione offline, ipotesi ventilata da Navarrete, “significherebbe relegarlo ai pagamenti tra dispositivi fisici, escludendo l’e-commerce e tutte le transazioni remote, che oggi rappresentano una parte fondamentale dell’economia e delle abitudini dei cittadini europei”, lasciando questo mercato nelle mani di operatori privati e rafforzandone la posizione dominante.

A livello pratico, la Bce ritiene che i costi del progetto sarebbero ampiamente bilanciati dai benefici. Lo sviluppo dell’euro digitale costerebbe all’Eurosistema circa 1,3 miliardi di euro fino alla potenziale emissione, più circa 320 milioni all’anno per il mantenimento. Agli istituti di credito di tutta l’eurozona sarebbe richiesta una spesa stimata di 4-6 miliardi, ossia circa un milione di euro a banca, in media. “È vero che le banche hanno fatto stime più alte, ma queste non tengono conto di alcuni fattori importanti come la mutualizzazione dei costi. Siamo al lavoro con gli istituti per minimizzare questi investimenti laddove possibile”, aggiunge l’addetto.

In cambio, una volta implementato, le banche potranno offrire ai propri clienti “un mezzo di pagamento europeo, sicuro, integrato e interoperabile, su cui costruire servizi aggiuntivi. In un contesto in cui grandi player globali stanno spingendo verso soluzioni proprietarie e integrate verticalmente, avere un’infrastruttura comune permette al settore bancario europeo di restare competitivo e di evitare di essere relegato al ruolo di semplice fornitore di back-end”, spiega Francia. L’euro digitale può diventare la base per servizi nuovi, dai micropagamenti alle integrazioni con altri strumenti digitali, fino ai servizi di identità e sicurezza, e “molte banche guardano con interesse a cosa potrebbero costruirci sopra”.

I vantaggi per gli partono dalla riduzione dei costi di accettazione, specie i canoni richiesti dai fornitori esterni. L’euro digitale nascerebbe già compatibile con i sistemi di incasso esistenti, può rendere i pagamenti più semplici e meno costosi: “è un vantaggio concreto, soprattutto per i piccoli negozi che lavorano con margini ridotti”. E con la versione offline si potrebbero accettare pagamenti in tempo reale, anche dove la connessione è incerta (in mercati, fiere, stadi, zone montane e aerei, per esempio), anziché pagare in differita finché non torna la connessione, come accade con i sistemi in uso oggi.

Infine, i benefici più immediati per il cittadino sarebbero l’inclusione, la libertà di scelta e la versatilità d’uso, evidenzia Francia: “si tratta di una moneta pubblica, garantita dalla Bce, utilizzabile in formato digitale come oggi si usa il contante” con un livello simile di semplicità. All’atto pratico, spiega, un cittadino anziano potrà utilizzare un wallet digitale supportato dalla sua banca, o dall’ufficio postale, senza dover affrontare la complessità di app diverse, mentre un giovane potrà scambiare piccoli importi in tempo reale e senza commissioni di sorta.

Il capitolo privacy

Concepito come estensione del contante nella sfera virtuale, le specifiche tecniche dell’euro digitale rispondono alle preoccupazioni di chi ha paventato il rischio di un monitoraggio orwelliano degli utenti. Anzitutto la Bce non potrà associare le singole transazioni a persone fisiche, spiega l’addetto: non raccoglierà dati identificativi sulle singole transazioni, solo i dati tecnici necessari al funzionamento e alla statistica, mascherati con tecniche crittografiche e aggregati in modo da preservare la riservatezza individuale. Tutto questo per quanto riguarda i pagamenti online, mentre quelli offline sarebbero scambi diretti tra i dispositivi di due utenti, che non lasciano tracce in nessun registro centrale. Nelle parole di Francia, “è esattamente l’equivalente digitale del contante in termini di anonimato”.

Dunque, chi vede cosa? “Per le transazioni online, l’intermediario diretto dell’utente – la banca o il prestatore di servizi di pagamento che ha scelto – avrà accesso alla minima informazione necessaria per svolgere controlli obbligatori”, quali quelli antifrode e antiriciclaggio, come avviene già oggi. Ma gli operatori saranno vincolati dalle regole Ue in materia di privacy (Gdpr) e frode (Aml), con un controllo più diretto dei fornitori residenti in un Paese extra-Ue. Mentre per i pagamenti offline rimarrà impossibile per qualsiasi ente avere visibilità sulla singola transazione.

La Bce ha previsto tre livelli di garanzia per assicurare che questi presidi non siano modificabili in futuro, spiega Francia. “Il primo è l’architettura tecnica: pseudonimizzazione, hashing, crittografia e meccanismi offline che evitano il passaggio dei dati a un registro centrale ed eliminano la possibilità tecnica di ricostruire profili individuali. Il secondo è il quadro normativo: il progetto si sviluppa all’interno dell’ordinamento europeo, con il Gdpr come pilastro per la protezione dei dati personali e con il Regolamento sull’euro digitale che definirà limiti e obblighi”.

Il terzo livello è operativo: la Bce “non ha un incentivo economico per trasformare l’euro digitale in uno strumento di profilazione”. Si tratta di un modello “intenzionalmente diverso da quello dei grandi servizi commerciali che monetizzano i dati degli utenti”, chiosa Francia. Le preoccupazioni sulla privacy sono legittime, aggiunge, ma è “curioso che queste paure si concentrino su uno strumento regolato da norme europee molto rigide, mentre nessuno sembra turbato dal fatto che moltissime aziende private extraeuropee conoscano nei dettagli i nostri comportamenti, preferenze, spostamenti e acquisti grazie ai dati che forniamo volontariamente ogni giorno attraverso app, ricerche online, social media e dispositivi personali”.

Una questione di sovranità europea

Il filo conduttore del progetto è la creazione di un’infrastruttura strategica che possa rafforzare l’autonomia europea nel mondo dei pagamenti. Oggi il 60-70% delle transazioni digitali nell’eurozona passano tramite circuiti internazionali non europei (Visa e Mastercard su tutti) e molti Paesi non possiedono un proprio circuito nazionale di carte (che per l’Italia è Bancomat): ne consegue che una quota rilevante dei proventi delle transazioni, dei dati generati e delle infrastrutture di pagamento dipende da soggetti al di fuori del quadro regolatorio Ue.

Le implicazioni per la sovranità strategica europea sono abbastanza evidenti: la dipendenza da fornitori non Ue “può esporci a rischi, non solo commerciali ma anche geopolitici. Se un grande operatore globale decidesse di imporre condizioni, costi o restrizioni, l’Europa dovrebbe subirli”. Motivo per cui avere un’infrastruttura europea, gestita dall’Eurosistema, significa poter contare su una rete sotto controllo europeo, “che può essere davvero strategica per la resilienza del nostro sistema finanziario”.

Il punto, prosegue Francia, non è chiudere le porte ai circuiti privati, ma offrire un’alternativa indipendente: “non si tratta di fare la guerra agli operatori stranieri, ma un modo per diversificare l’ecosistema dei pagamenti europei”. Senza contare le ricadute positive in termini di innovazione, “perché la piattaforma sarà comune, condivisa, e utilizzabile da diverse banche, wallet e provider di servizi europei. Questo significa che le soluzioni locali o paneuropee (circuiti nazionali di carte, wallet digitali europei, app di pagamento) possono crescere su una base forte, interoperabile e compatibile con standard che valgono per tutti gli Stati dell’eurozona”, beneficiando dell’effetto-scala che può farli diventare player più importanti a livello globale.

Perché non lasciare che i privati sviluppino un’alternativa?

È un altro dei dubbi che pervadono lo scetticismo verso il progetto. I critici puntano a esempi come Wero, il wallet digitale sviluppato dalla European Payments Initiative (Epi), una joint venture costituita nel 2020 da 16 banche europee (tra cui Bnp Paribas, Deutsche Bank e l’italiana Nexi) e due processori di pagamento. Il sistema opera come schema di pagamento diretto tra conti, senza intermediazioni, ed è basato sull’infrastruttura di trasferimento istantaneo di Sepa, voluta dalla Commissione e pienamente europea.

Attualmente operativo in Francia, Germania e Belgio, Wero mira ad espandersi all’e-commerce nel 2025 e ai pagamenti Pos (via codice Qr e sensore Nfc) nel 2026, con l’obiettivo finale di sostituire progressivamente i sistemi nazionali, riducendo i costi per gli esercenti e mantenendo i dati transazionali su server europei in conformità con le leggi Ue. E ha generato dubbi rispetto alla convenienza di sviluppare l’euro digitale nel momento in cui sta emergendo una soluzione privata, ma europea.

Dal canto suo, Francia ribadisce che l’euro digitale non nasce per competere con le soluzioni private, né sostituire o mettere in ombra le iniziative del mercato. “L’obiettivo è dotare l’Europa di un’infrastruttura comune, neutrale e paneuropea, su cui le soluzioni private possano crescere meglio e in modo più interoperabile. Del resto l’Eurosistema sostiene da sempre lo sviluppo di strumenti di pagamento privati europei: se potessimo vedere iniziative del genere affermarsi su scala davvero continentale, saremmo i primi ad esserne felici”.

Base comune, ossigeno per crescere

Il problema, prosegue, è la frammentazione: in oltre venticinque anni l’Ue non è riuscita a costruire una vera interoperabilità paneuropea tra soluzioni private. Da qui la dipendenza dai fornitori extraeuropei. In questo contesto, l’euro digitale agirebbe da fattore abilitante: “la sua funzione di base è offrire standard aperti, non proprietari, validi in tutta l’eurozona, che gli operatori privati possono integrare nei loro wallet e nelle loro carte”. In pratica una soluzione come Wero potrebbe incorporare l’euro digitale, perché “. “non toglie spazio commerciale a nessuno: semmai fornisce a tutti una piattaforma comune che riduce costi duplicati, accelera l’interoperabilità e rende più facile espandersi oltre i confini nazionali”.

Il punto, continua Francia, è cruciale. Oggi una banca che vuole offrire un servizio di pagamento pienamente interoperabile in tutta l’area euro deve legarsi agli standard proprietari di un grande circuito internazionale, ma con l’euro digitale potrà farlo appoggiandosi a standard europei aperti, con costi più bassi per banche ed esercenti, maggiore concorrenza tra soluzioni private e maggiore libertà per gli utenti. “Non è un caso che, distribuendo l’euro digitale, le banche non pagheranno commissioni di circuito: un risparmio non secondario, che potrà essere reinvestito in innovazione e in nuovi servizi”.

Francia sottolinea come i costi di adeguamento all’euro digitale previsti dalle stesse banche non siano cifre trascurabili, “ma rapportate ai budget IT del settore bancario rappresentano una frazione minima. Soprattutto, si tratta di investimenti che generano sinergie con l’evoluzione già in corso dei pagamenti digitali. Non sottraggono energie alle iniziative private: in molti casi le accelerano, perché lavorare su un’infrastruttura comune consente di non reinventare la ruota ogni volta”, prosegue. “Gli stessi consorzi privati riconoscono che gli sforzi necessari per raggiungere l’interoperabilità paneuropea sono enormi; farlo contando solo su iniziative nazionali coordinate tra loro si è dimostrato estremamente difficile”.

Si torna sull’aspetto strategico, la necessità di un’infrastruttura paneuropea, sottolinea l’addetto di Bankitalia. “La storia ci insegna che soluzioni puramente private raramente garantiscono stabilità e sovranità nel lungo periodo: basti pensare alla vendita di Visa Europe a Visa” nel 2015. La vera domanda, conclude, “non è se debba esistere uno strumento pubblico: è quando decideremo di costruirlo, sapendo che ogni anno di ritardo significa maggiore dipendenza da standard non europei”.