Belém ridisegna la mappa del clima

Alla Cop30 la leadership si sposta verso Sud: il Brasile media, la Cina investe e l’Europa difende la sua posizione in un mondo che cambia
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Belem, Conferenza Onu Sul Clima Cop30 Foto Di Gruppo
(Ipa/Fotogramma)

Si apre a Belém -la porta dell’Amazzonia- la Cop30: dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, il vertice Onu sul clima torna alle radici del problema. Ma lo fa in un momento in cui la fiducia collettiva vacilla. Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, la soglia di 1,5 gradi sopra i livelli preindustriali è stata superata temporaneamente e la traiettoria globale porta dritto verso i 2,8 gradi a fine secolo.

Non c’è più spazio per dichiarazioni ottimistiche o per formule di compromesso. Lo ha detto André Corrêa do Lago, presidente della conferenza: “In qualche modo la riduzione dell’entusiasmo del Nord globale dimostra che il Sud globale si sta muovendo”. È una provocazione calibrata, ma anche un modo per ribaltare il quadro: mentre Stati Uniti ed Europa mostrano affaticamento e divisioni interne, Paesi come Cina, India, Indonesia o Brasile si presentano con piani di transizione più pragmatici, fondati sull’espansione industriale delle rinnovabili.

Belém non è solo un palcoscenico. È anche un test logistico e politico. La città, adattata in fretta per ospitare 194 delegazioni, rappresenta una contraddizione vivente: si parla di sostenibilità mentre nuove strade tagliano tratti di foresta per collegare gli hotel alla zona dei negoziati. Lula da Silva, presidente brasiliano e padrone di casa, cerca di mostrare un equilibrio tra sviluppo e tutela. Ha annunciato la creazione del Tropical Forest Forever Facility, un fondo da 125 miliardi di dollari per la protezione delle foreste, con un primo finanziamento da dieci miliardi ancora da erogare. “Le foreste valgono più in piedi che abbattute”, ha detto Lula. L’intento è quello di trasformare la tutela ambientale in infrastruttura economica, includendo la biodiversità nel calcolo del Pil dei Paesi amazzonici.

La scelta di portare la conferenza in Amazzonia risponde a un’urgenza simbolica, ma anche politica. Il Brasile vuole tornare ad avere voce nel negoziato climatico dopo anni di marginalità sotto Bolsonaro. Il Sud globale, da ospite a interlocutore, cerca di dettare l’agenda. La frase di Corrêa do Lago — “Il Sud si muove” — è la sintesi di questo cambio di paradigma. Ma mentre il Sud avanza, il Nord arranca: le economie avanzate faticano a conciliare crescita e decarbonizzazione, e il ritorno di Donald Trump sulla scena politica statunitense ha riaperto ferite che sembravano cicatrizzate. Washington partecipa alla COP senza delegazione di alto livello: un segnale che pesa.

La nuova geografia della transizione energetica

L’intervento di Corrêa do Lago ha messo a nudo un tema che aleggia da mesi nei corridoi diplomatici: il Nord globale, cioè l’insieme dei Paesi industrializzati che per primi si erano impegnati nella corsa alla decarbonizzazione, sta mostrando un calo d’impegno. L’inflazione energetica, le tensioni geopolitiche e il ritorno di politiche protezionistiche hanno rallentato l’azione climatica europea e americana. Le imprese investono meno, i governi oscillano tra incentivi e sussidi ai combustibili fossili e la transizione rischia di diventare una questione elettorale più che industriale.

Nel frattempo, la Cina sta trasformando la propria vulnerabilità in leva economica. È il primo emettitore mondiale di gas serra, ma anche il principale produttore e consumatore di energia pulita. Per Corrêa do Lago “la Cina sta proponendo soluzioni che valgono per tutti. I pannelli solari sono più economici e questo li rende più competitivi rispetto ai combustibili fossili”: mentre in Occidente si discute su come finanziare la transizione, Pechino ha già costruito la filiera globale delle rinnovabili, dal silicio per i moduli fotovoltaici alle batterie per l’elettrico.

Il risultato è che, per la prima volta, il Sud del mondo si trova a trainare la rivoluzione energetica. L’India punta su un’espansione solare senza precedenti, il Brasile sfrutta la combinazione di idroelettrico e biocarburanti, il Sudafrica lavora con l’Ue per ridurre il carbone. In questi Paesi la transizione non è più un concetto etico, ma una strategia industriale. Il Nord, al contrario, è costretto a confrontarsi con un’economia che cambia direzione più in fretta di quanto la politica riesca a seguire.

Non si tratta solo di tecnologia, ma di un mutamento di potere. Chi controlla le catene produttive dell’energia pulita avrà vantaggi geopolitici simili a quelli che per decenni derivavano dal petrolio. Per questo la Cina è in prima linea con i suoi piani per ridurre le emissioni del 7-10 per cento entro il 2035.

La distanza si misura anche nei numeri: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2024 il 95% della nuova capacità elettrica installata nel mondo è rinnovabile. Ma solo il 2% dei 2.000 miliardi di euro investiti è finito in Africa, continente che possiede il 60 per cento del potenziale solare globale. È uno squilibrio strutturale che Ursula von der Leyen ha posto al centro del suo intervento a Belém: “Serve mantenere lo slancio, investendo in Africa, nelle reti e nello stoccaggio”.

Per l’Unione Europea, la transizione non può più limitarsi ai confini del proprio mercato. La presidente della Commissione ha ricordato che almeno il 25 per cento dei 300 miliardi del programma Global Gateway è destinato a infrastrutture energetiche, con un focus sulla stabilità delle reti e sui sistemi di accumulo. Dietro la diplomazia del linguaggio, c’è un messaggio politico: l’Europa non può permettersi di restare indietro. Ma la sua leadership climatica, un tempo incontestata, oggi deve misurarsi con un mondo in cui la sostenibilità è anche competizione economica.

L’Europa tra ambizione e compromesso

All’interno del blocco europeo, la Cop30 è arrivata in un momento di revisione profonda. Dopo trattative estenuanti a Bruxelles, i ministri dell’Ambiente hanno trovato un accordo per aggiornare la legge climatica e fissare il nuovo Contributo nazionalmente determinato dell’Ue: riduzione delle emissioni tra il 66,25% e il 72,5% entro il 2035, con un obiettivo del 90% per il 2040. Il ministro danese Lars Aagard lo ha definito “un forte segnale”. Ma dietro la dichiarazione si intravedono le difficoltà di un continente che cerca di tenere insieme ambizione politica e sostenibilità economica.

Ursula von der Leyen, nel suo discorso di apertura a Belém, ha insistito sul concetto di “transizione per tutti”: il solare e l’eolico hanno superato il carbone come principale fonte di elettricità, ma servono reti e stoccaggi adeguati per rendere stabile il sistema. L’Europa, ha detto, “mantiene la rotta”, e lo fa non solo per sé ma anche per i Paesi partner. In questo quadro si inserisce la strategia di finanza climatica esterna, che vede l’Ue come il principale contributore globale con 34 miliardi di euro in finanziamenti pubblici concessi nel 2024.

Il ministro italiano Gilberto Pichetto Fratin ha presentato numeri in linea con questo approccio: “L’Italia nel solo 2024 ha superato i 3 miliardi di intervento, con un importo complessivo di 3,4 miliardi”. Le risorse, ha spiegato, sono destinate in particolare all’Africa e a progetti di adattamento che coinvolgono pubblico e privato. È un modo per ribadire che Roma vuole essere parte della partita geopolitica della transizione, non semplice spettatrice.

All’interno dei 27, le differenze, però, restano profonde. I Paesi dell’Est chiedono tempi più lunghi per abbandonare il carbone, Francia e Germania si scontrano sul ruolo del nucleare, e le economie mediterranee puntano sulla diversificazione delle fonti. In questo quadro frammentato, la Cop30 rappresenta un banco di prova per la credibilità dell’Unione.

Il meccanismo dei crediti di carbonio, previsto per coprire fino al 5% dell’impegno al 2040 tramite investimenti diretti in Paesi terzi, è uno degli aspetti più controversi. Da un lato consente di finanziare progetti di decarbonizzazione in Africa, America Latina e Asia; dall’altro rischia di trasformarsi in un espediente contabile. Non tutti i partner lo accettano di buon grado: molte nazioni del Sud globale considerano i crediti una forma di “compensazione morale” che non affronta la radice del problema, cioè la riduzione delle emissioni alla fonte.

Intanto, il tempo corre. Alla vigilia della conferenza, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha ricevuto un messaggio congiunto da von der Leyen e dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa: “Il mondo ha bisogno di una forte azione multilaterale per affrontare l’emergenza climatica”. È una dichiarazione d’intenti, ma anche un’ammissione implicita: la cooperazione internazionale è fragile, e senza un rinnovato equilibrio tra Nord e Sud, la transizione rischia di perdere il suo motore politico.

L’Unione prova a colmare il divario con nuovi strumenti. I partenariati bilaterali per la transizione pulita, oltre quaranta in quattro anni, sono pensati per legare la politica climatica alla crescita economica dei Paesi partner. In teoria, dovrebbero creare posti di lavoro locali e garantire forniture di energia pulita all’Europa. In pratica, molti osservatori notano che questi accordi si muovono su una linea sottile tra cooperazione e interesse strategico. La finanza climatica, oggi, è anche geopolitica industriale.

La partita del “dopo-Parigi”

Luiz Inácio Lula da Silva ha fatto della Cop30 un progetto politico personale. Per il Brasile, ospitare la conferenza significa rimettersi al centro di una discussione da cui era stato escluso. Ma per Lula, significa anche testare la capacità del Sud del mondo di guidare una risposta globale. “Quando la distruzione delle foreste raggiunge punti irreversibili, gli effetti si fanno sentire in tutto il mondo”, ha ricordato il presidente brasiliano, annunciando il fondo Tropical Forest Forever Facility come “uno dei principali risultati concreti” del vertice.

L’obiettivo è costruire un meccanismo finanziario stabile che valorizzi economicamente la protezione delle foreste tropicali, non più solo attraverso donazioni ma con investimenti strutturali di lungo periodo. La logica è spostare il baricentro del discorso: non più “aiuti per il clima”, ma “valorizzazione di capitale naturale”. È un linguaggio che piace ai mercati e consente ai Paesi forestali di uscire dal ruolo di vittime per assumere quello di attori economici.

La Cop30 di Belém coincide con una fase in cui il multilateralismo climatico sembra attraversare la sua crisi più acuta. Dopo anni di conferenze che hanno accumulato obiettivi, piani e acronimi, il nodo è sempre lo stesso: la distanza tra impegni e risultati. I Contributi determinati a livello nazionale, aggiornati ogni cinque anni, dovevano essere il motore di un percorso progressivo verso la neutralità. Ma molti Paesi non hanno rispettato la scadenza, altri hanno presentato documenti di facciata. Per gli Stati insulari del Pacifico, rappresentati da Ilaria Seid, ambasciatrice di Palau all’Onu, “i risultati fino ad ora sono inadeguati e dobbiamo reagire. L’obiettivo di 1,5°C dev’essere la nostra stella polare”.

Belém è anche il momento in cui si comincia a discutere dell’applicazione concreta del Fondo per le perdite e i danni, lo strumento pensato per compensare i Paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. È un tema che divide. I governi industrializzati temono un meccanismo troppo oneroso, mentre quelli in via di sviluppo chiedono accesso diretto e risorse garantite. La Banca Mondiale, chiamata a gestire il fondo, cerca un equilibrio tra vincoli finanziari e urgenze sociali. Ma l’assenza di una governance chiara rischia di trasformare l’iniziativa in un nuovo contenitore di promesse.

Da Parigi a oggi, i vertici climatici sono diventati sempre più complessi, ma anche più difficili da tradurre in risultati tangibili. La “Baku to Belém roadmap”, il piano di revisione dei finanziamenti climatici definito alla Cop29 in Azerbaigian, è rimasto incompiuto: dei 1.300 miliardi di dollari promessi, solo una frazione è stata effettivamente mobilitata.

Il punto non è solo economico. È la credibilità del processo stesso. Dopo trent’anni di conferenze, il linguaggio della diplomazia climatica è diventato familiare, ma sempre meno incisivo. Gli attori si ripetono, le sigle si moltiplicano e la distanza tra tavoli negoziali e realtà aumenta. Lula prova a invertire la rotta: la foresta come pilastro economico, il Sud globale come protagonista, il Brasile come laboratorio politico. Ma la tensione resta irrisolta.

A Belém la questione di fondo è una sola: chi pagherà la prossima fase della transizione. Gli investimenti richiesti sono enormi, e le promesse non bastano più. Le economie emergenti chiedono accesso diretto ai fondi, i Paesi industrializzati difendono le proprie priorità interne, e nel mezzo ci sono le nazioni più vulnerabili, che già affrontano uragani, siccità e perdita di territori abitabili.