Nel 1958 una giovane laureanda in giurisprudenza tornava a Roma dopo un anno alla Columbia University. Aveva vinto una borsa Fulbright, studiato diritto comparato e ottenuto un master prestigioso. Si presentò alla segreteria universitaria convinta che quel percorso potesse valere anche in Italia. Le dissero di no. I suoi esami non erano riconoscibili, il suo anno all’estero non contava nulla.
Da quel rifiuto nacque una delle più profonde trasformazioni dell’istruzione europea. Sofia Corradi, morta il 17 ottobre a 91 anni, trasformò un episodio di burocrazia miope in un progetto che avrebbe cambiato la formazione e la mobilità di milioni di persone. Dopo diciotto anni di lavoro, la sua idea prese forma in un programma che oggi conoscono tutti: Erasmus.
L’origine del modello Erasmus
Tutto iniziò da un ostacolo amministrativo che rivelava una mentalità. L’università italiana degli anni Cinquanta era impermeabile a qualsiasi percorso che non passasse attraverso i suoi canali interni. Corradi capì che il problema non era il suo caso personale, ma la mancanza di un sistema europeo di riconoscimento reciproco degli studi.
Negli anni Sessanta cominciò a lavorare a una proposta strutturata. Da docente all’Università Roma Tre, costruì un modello di mobilità accademica basato su tre elementi: borse di studio pubbliche, accordi tra atenei, validità automatica dei crediti acquisiti all’estero. La chiamava “esperienza interculturale riconosciuta”.
Il contesto non era favorevole. I burocrati la consideravano un’idea impraticabile, i rettori temevano di perdere potere decisionale. Anche chi le era vicino riteneva il progetto troppo ambizioso. Corradi, però, insisteva con dati e argomenti: studiava i modelli americani e dimostrava che chi aveva esperienze internazionali otteneva più facilmente un impiego qualificato.
Nel 1969 presentò la sua proposta alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Non ottenne risposta. Ma l’idea cominciò a circolare nei documenti di lavoro della Commissione europea, che in quegli anni stava esplorando strumenti per rafforzare la cooperazione culturale. Corradi capì che per superare i limiti nazionali bisognava spostare la battaglia a livello comunitario.
La lunga strada verso Bruxelles
A metà degli anni Settanta la Comunità Europea cercava un modo per costruire identità oltre l’economia. Nei convegni e nei gruppi di studio comparve il tema della “mobilità formativa”. Corradi, forte della sua esperienza accademica, portò l’idea in sede internazionale e collaborò con diversi centri di ricerca e università europee.
Nel 1986 la Commissione presentò la proposta ufficiale per un “programma comunitario di mobilità universitaria”. Lo chiamò Erasmus, acronimo di European Community Action Scheme for the Mobility of University Students, e riferimento al filosofo Erasmo da Rotterdam, simbolo del sapere senza frontiere.
L’approvazione fu complessa. Francia, Germania e Regno Unito contestarono il metodo di voto e la gestione finanziaria. Le trattative sul bilancio portarono la Commissione a ritirare temporaneamente la proposta. Nel giugno 1987, dopo mesi di stallo, il Consiglio adottò comunque la decisione. Alcuni governi la impugnarono davanti alla Corte di Giustizia europea, che confermò la legittimità del provvedimento. Era la fine di una battaglia politica durata vent’anni.
Nel primo anno parteciparono 11 Paesi e 3.244 studenti. L’obiettivo era consentire a chi studia di trascorrere un periodo all’estero senza perdere tempo accademico né sostenere costi insostenibili. Una semplice idea, ma con effetti sistemici. Erasmus rese concreto il principio secondo cui la conoscenza deve poter circolare come le merci nel mercato unico.
Corradi non chiese mai riconoscimenti personali. Ma molti funzionari europei che seguirono la nascita del programma la indicarono come la vera ispiratrice. L’appellativo “Mamma Erasmus” le rimase addosso per decenni, anche se lei preferiva definirsi “una docente che non si è arresa ai regolamenti”.
Un programma che ha ridisegnato l’università europea
Erasmus è nato come progetto sperimentale e si è trasformato in una delle politiche europee più solide. Dal 1987 a oggi, più di dieci milioni di persone ne hanno beneficiato. Solo nel 2023 oltre 640 mila studenti hanno trascorso un periodo di studio o tirocinio in un altro Paese europeo.
Nel 2014 il programma è stato ampliato e rinominato Erasmus+, per includere anche formazione professionale, sport, volontariato e scambi giovanili. Il bilancio attuale (2021–2027) supera i 26 miliardi di euro, con obiettivi precisi: mobilità, inclusione sociale, competenze digitali, sostenibilità ambientale.
Gli indicatori di impatto mostrano effetti concreti: i partecipanti hanno maggiori opportunità occupazionali e tassi di adattabilità più alti nel mercato del lavoro. Secondo la Commissione europea, il 93% degli studenti considera l’esperienza Erasmus determinante per la propria crescita personale e professionale.
Oltre ai dati, il programma ha modificato l’ecosistema accademico. Le università europee collaborano in modo strutturato, condividono standard e sistemi di valutazione, attivano doppi titoli e progetti congiunti di ricerca. Erasmus ha introdotto la logica della mobilità come elemento permanente della formazione superiore.
Non è solo una questione di numeri. È una trasformazione culturale: ha reso normale l’idea che un periodo di studio all’estero sia parte integrante del percorso accademico. Negli anni Sessanta era un’eccezione per pochi privilegiati; oggi è un diritto accessibile, sostenuto da fondi pubblici.
L’eredità di Sofia Corradi
Sofia Corradi ha insegnato fino al 2004 come professore ordinario di Educazione degli adulti all’Università Roma Tre. Ha diretto il Laboratorio di Educazione Permanente e un corso di perfezionamento in “Teoria e prassi dell’educazione degli adulti”. Si è sempre definita una “pacifista per vocazione”, convinta che la conoscenza condivisa riduca i conflitti più di qualsiasi trattato.

Corradi datava al 1963 la prima formulazione della sua idea di un sistema di mobilità universitaria europea. Nella sua attività di ricerca si era occupata di educazione permanente e di diritto all’istruzione come diritto umano, collaborando con la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a New York, con l’Accademia di Diritto Internazionale dell’Aia e con la London School of Economics.
All’Università Roma Tre fu eletta per tre mandati nel Senato accademico e contribuì a diffondere il concetto di lifelong learning come responsabilità pubblica, non come percorso d’élite. Per lei la mobilità studentesca era una forma di educazione alla cittadinanza europea, non un privilegio ma un diritto.
Nelle sue lezioni ricordava che Erasmus non era un viaggio di piacere, ma un meccanismo di giustizia formativa: chi studia all’estero deve poter tornare con crediti riconosciuti e competenze spendibili. Per lei la mobilità era una questione di equità.
La sua battaglia ha lasciato un’impronta profonda sul modo in cui l’Europa intende l’istruzione. Oggi parlare di riconoscimento automatico, di partenariati o di internazionalizzazione dei curricula è prassi quotidiana, ma all’epoca era un’idea rivoluzionaria.
Dopo il pensionamento, Corradi continuò a partecipare a convegni e incontri con gli studenti. Riceveva lettere da ragazzi e ragazze che avevano studiato all’estero grazie al programma. Molti scrivevano che quell’esperienza aveva cambiato il loro modo di vedere il mondo. Corradi, che aveva cominciato tutto dopo un rifiuto, vedeva in quelle testimonianze la conferma che la perseveranza può produrre effetti concreti e duraturi.
Il suo nome resta legato a una delle poche iniziative europee capaci di unire davvero. Ogni volta che uno studente compila una domanda Erasmus, sta applicando in modo pratico un principio nato da una semplice richiesta di riconoscimento negata quasi settant’anni fa.