Il simbolo della tavola italiana finisce nel mirino della Casa Bianca. Il governo Trump ha annunciato l’intenzione di imporre un dazio del 107% sulla pasta Made in Italy, accusando le aziende italiane di pratiche di dumping sul mercato americano. La misura, ancora in fase di definizione, avrebbe effetti dirompenti: raddoppierebbe i prezzi per i consumatori statunitensi e rischierebbe di cancellare un intero capitolo dell’export agroalimentare italiano, pari a 671 milioni di euro nel 2024, secondo la Coldiretti. Il governo italiano definisce il provvedimento “senza giustificazione”, mentre la Commissione europea segue il dossier nell’ambito dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti.
L’indagine anti-dumping e la reazione italiana
L’amministrazione Trump ha scelto di colpire la pasta italiana all’interno di un’indagine anti-dumping avviata dal Dipartimento del Commercio. Nel mirino, in particolare, due aziende prese a riferimento – La Molisana e Garofalo – secondo quanto riferisce Unione Italiana Food, accusate di aver venduto a prezzi troppo bassi rispetto al mercato interno. Una tesi che l’industria italiana respinge in blocco.
“La qualità della pasta italiana non è dumping”, ha scritto su X il ministro degli Esteri Antonio Tajani, annunciando che “alla Farnesina la task force dazi sta già lavorando per coordinare il negoziato con le autorità americane”. Tajani ha ribadito che “l’industria italiana agisce in maniera corretta, trasparente e leale” e che Roma “continuerà a contrastare l’Italian sounding per bloccare i finti prodotti italiani”.
L’azione statunitense è stata accolta con durezza dalle imprese del settore. “Il 91,78% di dazi è un insulto al prodotto del Made in Italy per eccellenza, segno che si tratta di una decisione politica non tecnica”, ha dichiarato Cristiano Laurenza, segretario generale di Pastai di Unione Italiana Food.
Le aziende interessate hanno consegnato “puntuali informazioni e completa documentazione”, spiega Laurenza, ma “la pronuncia dell’amministrazione americana è stata la più severa mai vista”. La percezione, nell’industria, è quella di un muro tariffario costruito non per correggere distorsioni, ma per chiudere il secondo mercato più importante per la pasta italiana dopo la Germania.
Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, in missione negli Stati Uniti, ha confermato che Roma sta seguendo da vicino “i dossier legati alla presunta azione anti-dumping che farebbe scattare un meccanismo iper-protezionista del quale non vediamo né la necessità né alcuna giustificazione”. Il governo punta a un dialogo diretto con Washington, ma non esclude il ricorso agli strumenti del diritto internazionale tramite Bruxelles.
L’impatto sull’Italia: export in bilico e rischio rincari domestici
Dietro le cifre del dazio si nasconde una catena economica complessa. Gli Stati Uniti rappresentano un mercato strategico per il settore: nel 2024 la pasta italiana ha generato esportazioni per 671 milioni di euro. Le aziende italiane della pasta guardano al 2026 – data ipotetica di entrata in vigore del dazio – con crescente preoccupazione. Un dazio al 107% significherebbe, secondo Coldiretti, “raddoppiare il costo di un primo piatto per le famiglie americane” e “azzerare anni di crescita e investimenti lungo la filiera”.
Il rischio, però, non resta confinato oltre Atlantico. Secondo Assoutenti, l’effetto-boomerang potrebbe ricadere anche sui consumatori italiani. “Una eventuale imposizione di dazi al 107% sulla pasta italiana rischia di determinare nuovi rincari anche sul nostro territorio”, avverte il presidente Gabriele Melluso. Con l’export ridotto, i produttori potrebbero tentare di recuperare margini rialzando i listini al dettaglio.
Oggi, un chilo di pasta costa in media in Italia 1,84 euro, ma la forbice è ampia: 2,15 euro a Pescara, 2,08 ad Ancona, 2,05 a Cagliari, 2,03 a Firenze, mentre Roma (1,97 €/kg) supera Milano (1,79 €/kg). A Palermo, invece, la media scende a 1,33 euro. Dati Mimit alla mano, la differenza territoriale è già marcata. Un nuovo shock dei listini aggraverebbe la pressione su un bene simbolico ma essenziale.
In base alle rilevazioni Istat, dal 2021 il prezzo della pasta è cresciuto del 24,2%, trainato prima dalla guerra in Ucraina, poi dall’aumento del costo del grano duro e dell’energia. “I pericoli per i consumatori non sono finiti”, ribadisce Melluso. Se gli Stati Uniti chiudono un canale di export così importante, il contraccolpo interno potrebbe essere inevitabile: meno export, più offerta interna, ma listini più alti per sostenere i margini.
Per Coldiretti, la misura americana è “uno scenario da scongiurare”. Il presidente Ettore Prandini sottolinea che il dazio “aprirebbe un’autostrada ai prodotti Italian sounding”, favorendo le imitazioni statunitensi e penalizzando le vere imprese italiane. “Le accuse di dumping sono inaccettabili e strumentali al piano di Trump di spostare le produzioni negli Stati Uniti”, afferma.
Per un Paese che consuma oltre 23 kg di pasta pro capite l’anno, la questione è tutt’altro che simbolica.
La partita europea
L’Italia non è sola nella battaglia. La Commissione europea segue il caso come potenziale violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Le prossime settimane saranno decisive per capire se Bruxelles sceglierà la via negoziale o quella del contenzioso commerciale.
Il ministro Tajani ha confermato che “alla Farnesina la task force dazi sta lavorando in stretto coordinamento con l’ambasciatore Marco Peronaci negli Stati Uniti” per una risposta comune. Il Maeci, insieme ai ministeri dell’Agricoltura e delle Imprese, sta preparando un fronte unitario con l’Ue per “difendere il prodotto simbolo della dieta mediterranea e tutelare il lavoro, la qualità e la reputazione di un intero sistema agroalimentare”, come chiede Coldiretti.
Ma la partita diplomatica si gioca in un contesto delicato. Trump ha già riaperto la stagione del protezionismo selettivo, colpendo beni europei come vino, olio extravergine e pecorino romano, citati dallo stesso Lollobrigida. Il rischio, per l’Italia, è di trovarsi al centro di una spirale di ritorsioni e controritorsioni in grado di frenare la ripresa dell’export agroalimentare post-pandemia.
Dietro la pasta, infatti, si gioca qualcosa di più grande: la capacità dell’Europa di reagire a una politica commerciale americana tornata muscolare. Roma invoca compattezza e rapidità. “Serve un segnale forte delle nostre istituzioni”, avverte ancora Laurenza di Unione Italiana Food, “per evitare la chiusura del secondo mercato nelle esportazioni di pasta italiana”.