Dalla ‘guerra a pezzi’ al Piano Mattei: l’Italia di Meloni all’Onu

Tra diritto internazionale, traffico di esseri umani e cooperazione con l’Africa, la premier traccia la linea italiana davanti ai delegati delle Nazioni Unite
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Un Diplomacy Unga
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Afp)

“Viviamo una fase storica accelerata, complessa, ricca di opportunità ma anche, forse soprattutto, densa di pericoli. Sospesi tra guerra e pace.” Giorgia Meloni ha aperto così il suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che quest’anno celebra 80 anni dalla fondazione. Poche parole, ma sufficienti a delineare il quadro: un pianeta attraversato da tensioni che le istituzioni internazionali non riescono più a contenere.

L’immagine scelta dalla premier italiana non è un vezzo retorico. Secondo il Global Peace Index 2024, sono in corso 56 conflitti armati, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale. È questo il contesto che ha portato Meloni, nel corso del discorso, a rilanciare la definizione coniata da Papa Francesco di una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi”. Una formula che condensa l’impotenza di un sistema multilaterale nato per garantire pace e sicurezza collettiva e oggi ridotto a osservare la moltiplicazione delle crisi.

Il Palazzo di Vetro sotto accusa

L’Onu arriva all’ottantesimo anniversario in un contesto di instabilità che ne mette a nudo i limiti. L’istituzione nata nel 1945 per custodire la pace si trova oggi a fronteggiare crisi che non riesce a governare. È questo scarto tra obiettivi fondativi e realtà attuale che Giorgia Meloni ha messo al centro del suo intervento a New York: “Multilateralismo, dialogo e diplomazia, senza istituzioni che funzionano come dovrebbero, sono solo parole vuote”.

Il nodo principale è il Consiglio di Sicurezza, dove i cinque membri permanenti continuano a esercitare il diritto di veto. La Russia lo usa per bloccare ogni condanna della sua invasione dell’Ucraina, gli Stati Uniti per proteggere Israele dalle risoluzioni più severe, mentre la Cina non nasconde di ricorrervi per difendere interessi regionali. Il risultato è un meccanismo pensato ottant’anni fa che oggi produce paralisi più che soluzioni.

L’Italia rilancia una proposta che porta avanti da anni insieme al gruppo ‘Uniting for Consensus’: allargare la rappresentanza senza creare nuovi seggi permanenti, aumentare la rotazione e ridurre il peso delle gerarchie. Una posizione che contrasta con quella di Paesi come Germania, India, Brasile o Giappone, che puntano invece a ottenere un posto fisso.

Il messaggio di Roma ha un obiettivo preciso: mostrare che i conflitti non sono episodi isolati, ma tasselli di un quadro globale di instabilità. E che un’Onu bloccata da veti e interessi di parte non ha gli strumenti per affrontarli. Da qui l’insistenza sulla necessità di una riforma pragmatica, che trasformi il Palazzo di Vetro da simbolo di buone intenzioni a sede capace di produrre decisioni concrete.

La linea italiana tra Kiev e Gaza

Nel suo intervento a New York, Giorgia Meloni ha scelto di toccare i due teatri che più mettono alla prova la tenuta del diritto internazionale: l’Ucraina e Gaza. Nel primo caso, la condanna è stata netta. “La Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l’articolo 2 dello Statuto dell’Onu”, ha ricordato la premier, sottolineando come l’aggressione del 24 febbraio 2022 rappresenti non solo un attacco a Kiev, ma un vulnus alle regole fondamentali dell’ordine internazionale. Un Paese che dovrebbe garantire la pace globale si è trasformato in aggressore, minando la credibilità stessa delle istituzioni multilaterali.

La linea italiana resta quindi allineata con quella dell’Unione europea e degli Stati Uniti: sostegno a Kiev, pressione su Mosca e nessuna apertura a soluzioni che non partano dal rispetto della sovranità ucraina. Per Meloni, non è solo questione di equilibrio geopolitico: “Questa ferita ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra”. L’invasione russa, nelle parole della premier, è la miccia che ha alimentato altre crisi regionali, riattivando fronti dormienti e incoraggiando attori pronti a sfruttare la fragilità delle regole internazionali.

Sul Medio Oriente, il registro si è fatto più complesso. Meloni ha definito l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 “feroce e brutale”, riconoscendo il diritto di Israele a difendersi. Ma ha subito precisato: “La reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese”. L’Italia, ha detto, considera inaccettabile la strage di civili e voterà a favore di alcune delle sanzioni europee contro Tel Aviv.

Al tempo stesso, Roma non intende adottare una linea di condanna unilaterale. “È Hamas ad aver scatenato la guerra”, ha ricordato Meloni, aggiungendo che il movimento islamista “potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi liberando subito tutti gli ostaggi”. La posizione italiana si traduce in due condizioni per il riconoscimento della Palestina: liberazione immediata degli ostaggi e rinuncia di Hamas a qualsiasi ruolo di governo. Da qui l’apertura a un piano che comprenda cessate il fuoco permanente, graduale ritiro di Israele da Gaza e costruzione di una prospettiva a due Stati.

La premier ha definito “molto interessanti” le proposte discusse dal presidente statunitense con i Paesi arabi e ha ribadito che l’Italia è pronta a collaborare. La posta in gioco è la credibilità di un approccio che non nega il diritto di difesa di Israele, ma che al tempo stesso rifiuta di accettare che la reazione travolga un intero popolo. È un equilibrio difficile, ma che Roma rivendica come necessario: il diritto internazionale non è negoziabile, e senza regole condivise ogni conflitto diventa un precedente pericoloso.

Dal diritto all’asilo al business dei trafficanti

Il passaggio più spigoloso del discorso di Giorgia Meloni è stato quello sulle migrazioni. La premier ha puntato il dito contro convenzioni e trattati internazionali che regolano asilo e protezione dei rifugiati, norme scritte in un contesto storico completamente diverso dall’attuale. “Sono regole sancite in un’epoca nella quale non esistevano le migrazioni irregolari di massa, e non esistevano i trafficanti di esseri umani”, ha detto. Il problema, secondo Meloni, è che, quando queste convenzioni vengono interpretate “in modo ideologico e unidirezionale da magistrature politicizzate, finiscono per calpestare il diritto, invece di affermarlo”.

Il punto è delicato: Roma non mette in discussione la necessità di tutelare i diritti fondamentali dei migranti e dei richiedenti asilo, ma sostiene che gli strumenti oggi disponibili non siano più adeguati. Il rischio, secondo il governo italiano, è che meccanismi pensati per garantire protezione diventino, di fatto, uno scudo per reti criminali che lucrano sulla disperazione delle persone. “La comunità internazionale deve unirsi nel contrastare il fenomeno del traffico di esseri umani”, ha insistito Meloni, aggiungendo che le Nazioni Unite “non possono voltarsi dall’altra parte o finire per tutelare i criminali nel nome di presunti diritti civili”.

Il richiamo è anche a un principio di sovranità: per l’Italia, ogni Stato deve avere la possibilità di proteggere i propri cittadini e i propri confini, senza che il diritto si trasformi in un ostacolo alla sicurezza. È una posizione che apre inevitabilmente un fronte di scontro con chi, all’interno delle istituzioni internazionali, difende lo status quo delle convenzioni. Ma è anche un tema che tocca direttamente la tenuta politica e sociale dell’Europa, esposta a flussi migratori irregolari che nessun Paese riesce a gestire da solo.

Il discorso non si è fermato qui. Meloni ha denunciato anche l’ipocrisia di un sistema che considera alcuni diritti più tutelabili di altri, richiamando in particolare la libertà religiosa: “Decine di milioni di persone in tutto il mondo – in larga parte cristiane – sono perseguitate e massacrate in nome della loro fede”. Per la premier, ignorare queste violazioni equivale a minare la credibilità stessa dell’Onu. Sul tavolo c’è quindi una richiesta di rivedere le regole, non per abbassare gli standard di protezione, ma per renderli efficaci in un mondo che non somiglia più a quello del secondo dopoguerra.

L’Africa come banco di prova della credibilità internazionale

Dopo aver denunciato i limiti dell’Onu e delle sue regole, Giorgia Meloni ha portato l’attenzione sul terreno in cui l’Italia vuole giocare da protagonista: l’Africa. È qui che si misura la possibilità di tradurre in fatti la visione di un nuovo multilateralismo pragmatico. Il riferimento centrale è il Piano Mattei, avviato tre anni fa e già esteso a quattordici Paesi africani. “Noi, a differenza di altri attori, non abbiamo secondi fini in Africa”, ha detto Meloni, sottolineando la distanza dall’approccio predatorio di potenze che guardano al continente come a una miniera di materie prime.

Gli esempi citati a New York mostrano la varietà del progetto: dal recupero di oltre 36 mila ettari di deserto in Algeria per trasformarli in terreni agricoli, con benefici diretti per 600 mila persone, all’apertura di un AI Hub for Sustainable Development che coinvolgerà start-up africane sul fronte dell’intelligenza artificiale; dal collegamento digitale del Blue Raman Cable, che unisce India, Medio Oriente, Africa ed Europa, al coinvolgimento italiano nel Corridoio di Lobito tra Angola e Zambia, pensato per spingere infrastrutture e commerci regionali.

Ma l’elemento politicamente più rilevante è la questione del debito africano. Meloni ha annunciato che l’Italia convertirà nei prossimi dieci anni l’intero ammontare del debito dei Paesi meno sviluppati, secondo i criteri della Banca Mondiale, e ridurrà del 50% quello delle nazioni a reddito medio-basso. In concreto, significa trasformare oltre 235 milioni di euro di debito in progetti di sviluppo da realizzare direttamente sul campo. “È una questione non solo economica ma di giustizia, di dignità, di futuro”, ha spiegato la premier.

Il terreno africano è oggi uno dei principali campi di competizione globale, con la presenza crescente di Cina, Russia, Turchia e Stati Uniti. Inserirsi in questo scenario significa confrontarsi con attori dotati di risorse molto più ampie. Per questo l’Italia punta a valorizzare la cooperazione multilaterale e partenariati pubblico-privati, cercando di costruire un modello riconoscibile. È qui che si gioca gran parte della credibilità del Piano Mattei: non nelle intenzioni, ma nella capacità di trasformare accordi e promesse in risultati visibili.