Bruxelles oggi non è solo la capitale politica dell’Ue. Il 16 settembre 2025 si trasforma in cassa di risonanza per una domanda scomoda: l’Europa vuole davvero restare protagonista della ricerca e dell’innovazione globale, o accetta di scivolare dietro Stati Uniti e Cina? La risposta si cerca al The Square, sede della sesta edizione degli European Research & Innovation Days (Giornate europee della ricerca e dell’innovazione), il forum in cui la Commissione prova a trasformare grandi parole – competitività, sovranità tecnologica, leadership industriale – in impegni concreti.
Sul palco Ursula von der Leyen e la neo-commissaria Ekaterina Zaharieva, affiancate da figure di peso come Henna Virkkunen e la science communicator Lucy Hawking. Ma i riflettori vanno soprattutto sui dossier che accompagneranno l’Ue nei prossimi anni: strategia per startup e scaleup (cioè le imprese innovative che hanno già superato la fase iniziale e stanno crescendo rapidamente sul mercato, ndr), piano per le scienze della vita, utilizzo dell’intelligenza artificiale nella ricerca, fino al nuovo European Innovation Act. Tutti temi che, al di là della retorica, misureranno se il continente ha ancora la capacità di tradurre conoscenza in crescita economica.
I Research & Innovation Days arrivano mentre è sul tavolo la proposta della Commissione per il prossimo bilancio pluriennale dell’UE, su cui si sono appena aperti i negoziati tra Parlamento, Consiglio e Stati membri. Il tempismo rende l’appuntamento ancora più sensibile: senza soldi e senza infrastrutture non c’è strategia che regga. Per questo Bruxelles punta a una narrazione diversa: non solo “più ricerca”, ma un collegamento diretto tra politiche e impatti sul mercato. È l’unico modo per non restare intrappolati nel paradosso europeo: eccellenza scientifica nei laboratori, ma ritardi cronici quando si tratta di portare le tecnologie sul mercato globale.
La nuova strategia Ue sulle infrastrutture di ricerca e tecnologia
Dietro ogni annuncio altisonante, la vera prova è nelle infrastrutture. Acceleratori di particelle, clean room, linee pilota per nuove tecnologie: senza questi strumenti non c’è ecosistema dell’innovazione. Oggi l’Europa li possiede, e in alcuni settori ha ancora una leadership riconosciuta. Ma mantenerla costa, e la concorrenza non aspetta. Stati Uniti e Cina investono senza esitazioni in centri di ricerca di scala continentale, mentre l’Ue fatica spesso a mettere insieme fondi e a coordinare gli Stati membri.
Da qui la nuova Strategia europea sulle infrastrutture di ricerca e tecnologia, che punta a rafforzare capacità e accessibilità. “Un approccio europeo ambizioso e coordinato è cruciale per restare leader globali”, ha dichiarato Zaharieva. Tradotto: senza un piano comune, ogni Paese rischia di duplicare strutture, sprecare risorse e lasciare spazi a concorrenti globali.
Le infrastrutture non servono solo alla scienza accademica. Sono l’anello decisivo che permette a una startup biotech di testare un prototipo senza dover trasferirsi oltreoceano, o a una pmi tecnologica di validare un prodotto in ambienti avanzati prima di lanciarlo sul mercato. È qui che si decide se l’Europa può davvero giocare la carta della sovranità tecnologica, o se dovrà continuare a dipendere da attori extraeuropei per la fase di scaling.
La Commissione non si nasconde: Draghi nel suo rapporto sulla competitività ha parlato chiaro, definendo le infrastrutture “indispensabili” per quella che viene chiamata la “quinta libertà”: la libera circolazione di ricerca, innovazione e conoscenza. Il nodo è che senza un aumento strutturale degli investimenti, l’Europa rischia di celebrare infrastrutture di eccellenza che, in pochi anni, diventeranno obsolete.
Accesso semplificato e “Choose Europe”
Avere laboratori all’avanguardia è inutile se restano chiusi a pochi addetti ai lavori. Per questo Bruxelles ha deciso di mettere mano all’accesso: schemi transfrontalieri, “one-stop shop” per i ricercatori, condizioni armonizzate per le imprese. L’obiettivo è pratico: trasformare la giungla di regole e differenze nazionali in un sistema integrato che permetta a una startup di Tallinn di accedere a un impianto di test in Italia senza mesi di burocrazia.
La partita si gioca anche fuori dai confini. Con la campagna “Choose Europe”, la Commissione vuole convincere i migliori talenti mondiali a lavorare qui. Von der Leyen, parlando alla Sorbona lo scorso maggio, ha sottolineato che le infrastrutture di ricerca sono “uno dei vantaggi che distinguono l’Europa”. Insomma, invece di perdere cervelli verso Silicon Valley o Shenzhen, Bruxelles vuole attirarne di nuovi offrendo non solo strutture di alto livello, ma anche percorsi di carriera e formazione continua.
Il piano prevede collegamenti con le Marie Skłodowska-Curie Actions e le Eu Skills Academies, per rafforzare le competenze e sostenere anche i profili meno visibili, dai tecnici di laboratorio ai gestori delle infrastrutture. In prospettiva, la vera sfida è ridurre la distanza tra ricerca accademica e industria: senza un accesso semplificato per startup e scaleup, il rischio è che i talenti continuino a cercare spazi più agili e competitivi fuori dall’Ue.
L’infrastruttura, in questo senso, diventa un biglietto da visita. Non basta avere il know-how: serve far capire a scienziati e innovatori globali che l’Europa è il posto migliore non solo per produrre conoscenza, ma per trasformarla in impresa.
Infrastrutture come strumenti geopolitici
La dimensione internazionale delle infrastrutture è sempre stata un punto di forza europeo. Grandi progetti comuni in astronomia, fisica delle particelle e osservazione della Terra hanno dimostrato che il continente sa attrarre collaborazioni globali. Ma oggi la partita non è più solo scientifica: è geopolitica. Standard di accesso, gestione dei dati e open science diventano strumenti per esportare il modello europeo, ma anche per blindare la propria autonomia tecnologica.
La Commissione spinge su due fronti. Da un lato, rafforzare la cooperazione con partner strategici in America Latina, Africa e Asia sudorientale. Dall’altro, integrare i Paesi candidati come l’Ucraina nello Spazio europeo della ricerca, garantendo loro accesso a infrastrutture avanzate e creando reti comuni. Una mossa che ha anche un chiaro valore politico: usare la scienza come collante diplomatico e come segnale di inclusione.
Al tempo stesso, Bruxelles è consapevole dei rischi. Aprire infrastrutture significa anche esporre dati e tecnologie sensibili. Per questo il piano introduce misure di risk management per proteggere impianti e dataset critici, in particolare nei settori ad alto impatto strategico come intelligenza artificiale, biotecnologie e materiali avanzati. L’idea è semplice: collaborare sì, ma senza un’apertura indiscriminata che potrebbe trasformarsi in vulnerabilità.
Resta irrisolto il tema centrale: chi paga? Costruire e mantenere queste infrastrutture richiede un impegno finanziario continuo. La Commissione promette coordinamento tra fondi pubblici e privati, ma la vera partita è politica: convincere gli Stati membri che non si tratta di spese discrezionali, bensì di un investimento strategico sul futuro industriale del continente.